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Breve storia, ma anche no, di un malinconico e malconcio piano di fuga

È una mattina luminosa e calma, troppo calma. E così mi sono ritrovata a progettare il mio piano di fuga.

Rannicchiata sul lettino, che solitamente accoglie i cazzi miei, la forma della crisi ha l’aspetto di un tempo indefinito. L’unico modo per sfuggire ai pensieri sarebbe stato quello di dormire. Chiudo gli occhi e mi dico che l’altro modo potrebbe essere quello di provare l’allegria. No, - mi dico ancora - troppo faticosa! Mi costringerebbe a muovermi, a presentare nuovi modi di espressione al mio corpo. Un mutamento di rughe sul mio volto costituirebbe un precedente ed io non posso permettermelo.

E se prendessi in considerazione una sigaretta? Di quelle arrotolate a mano che la cartina si appiccica alla lingua quando vai per chiuderla e il sapore dolciastro della colla basta già di suo a far venire lo schifo nello stomaco. Però sai che soddisfazione quel tiro di tabacco e carta bruciata a pieni polmoni che un vaffanculo pulito pulito da parte della signora asma non te lo risparmi manco con una boccata di Ventolin.

Facciamo che la risolvo con un: “mi attacco alla prima bottiglia che trovo!”. Mi volto lato comodino e c’è una litro e mezzo di acqua naturale che fa plin plin. Ma porca xxx!

Lo Cherry. Ecco cosa mi ci vuole, un bicchierino di Cherry mezzo pieno mezzo vuoto, tanto chi se ne fotte! devo scendermelo tutto. Ma sì, cosa vuoi che mi faccia un solo bicchierino, così, per tirarmi un po’ su. Ma sì, cosa vuoi che mi faccia un secondo bicchierino, giusto per sentirmi un po’ più vivace. Ma certo, cosa vuoi che mi faccia un altro bicchierino ancora, per sentirmi viva la vita che sta sempre là a punirmi. Cosa vuoi che mi faccia, è soltanto una mezza bottiglia di pensieri offuscati e sorriso distorto che di pieghe all’insù nemmeno traccia.

È un attimo. Un barlume di ricordi e sembianze troppo uguali per poter essere accettate. Mio padre. Non brindo più alla mia forma che si presenta feto in acqua prenatale.

La luce delle 11 è accecante al di là della tenda che cattura la mia vista sbilenca. La FragileLei fa ritorno. E la strada vuota e affollata e la gente e la normale quotidianità e gli spazi aperti e il respiro affannoso e la pancia con i crampi. Maledico la telecinesi che non ho e che non sbarra le finestre e non rovina la persiana al suolo, donandomi il buio. Il buio assoluto della protezione, dell’io sola con me, perché così non fa paura. Stringo gli occhi e li prego di addormentarsi, mi canto una ninna nanna senza parole sperando che mi respiri dentro.

Un balzo. Le molle allargate del materasso mi rigettano nel vivere.

16 lenti passi e il mio sedere è sulle mattonelle grigie e cocenti del balcone affaccio strada. Ciò che pochi secondi prima appariva essere il mio nemico in battaglia si trasforma nel mio piano di fuga perfetto; almeno nelle intenzioni teoriche, almeno nei fantapensieri, almeno nella confusione pacata dai flebili raggi del sole autunnale.

Schiena dritta al muro, gambe piegate al petto, dita ticchettanti sulle ginocchia, cappuccio della felpa alzato sulla testa giusto per ripararmi, giusto per ingannare la presenza. Non si può mai sapere, è sempre il fuori lì fuori e la FragileLei è in agguato costante.

Concentro su una mappa mentale i settordici modi per superare la ringhiera, senza schiantarsi al suolo. Che con la sfiga fa pure “cornuto e mazziato”.

La ringhiera. La guardo e non mi ricorda affatto quella di quando ero bambina. Aveva sbarre larghe da poterci infilare i piedi e farci stare penzolone le gambe. Avrei potuto attraversarle con l’intero minuscolo corpo se avessi deciso di saltar giù per accarezzare i gatti ficcamuso nei secchi ordinati della spazzatura dirimpettaia. Ordinati, sì! Dopotutto si trattava del centro storico della città, quello proprio al centro, con i palazzi sgarrupati ma soltanto perché quelli poi sono antichi assai.

La ringhiera del balcone con l’affaccio faccia strada è stretta, spigolosa, alta solo meno un terzo della mia di altezza. Insomma, è una ringhiera cazzimmosa.

Calcolo i vari “se” dell’atterraggio: la quantità di metri dal poggia mano alla siepe del piano terra, se le fronde degli alberi reggessero l’impatto carnale; la quantità di metri dalla seduta ultima del marmetto al gradino ultimo del passetto del giardino, se non mi rompessi tibia, perone, ossicine varie&eventuali dello scheletro; la quantità di metri dalla punta dei piedi delle gambe penzolone al tavolino di assi di legno scrostato, se non avessi l’impraticabilità di tenere le gambe penzolone tra le sbarre ferrose di questa ottusa ringhiera…mavafanculo!

Vaglio piani alternativi sfogliando nella pessima memoria racconti di fughe clamorose. La lista degli oggetti è abbastanza familiare: lenzuola, spuntina; seghetto, spuntina; martelletto, spuntina; cuscini… E qui mi illumino di immenso. I cuscini. Come ho fatto a non pensarci prima. A me che Principessa sul pisello levati, che a cuscini sto a livello ostello della gioventù.

Mi tuffo e…puff! Salvo il salvabile, se…

Se dopo tutta questa fatica non mi ritrovassi nella casa dei vicini, quindi a rischio denuncia per ogni qualunque. Se non mi costerebbe altre grane venir fuori dalla siepe oppure oltrepassare la barriera del cancelletto, malefica anche lei nel ricordarmi che dieta non è una brutta parola; oppure sgattaiolare tra i vasi di piante pruriginose che la mia allergia ringrazia cortesemente.

Girotondo le opzioni senza muovermi dalla mattonella ormai tatuata sulle mie chiappe. Scorgo un angolo facile, mi accaparro l’idea che ce la posso fare per davvero. Un dislivello, un’apertura tra i rami e le foglie, rombi vuoti di salita, una gamba di qua una di là. Tralascio la constatazione dei miei umili centimetri e applaudo alla temerarietà, una pacca sulla spalla dell’ego e…cazzo! Il portone. Dietro al da fare dei miei piani a, b, c, d, e contemplazione dell’intero alfabeto c’è lui, nella sua imprescindibile stabilità. Il protettore del nulla e carceriere di libere libertà.

D’improvviso, ansimando, mi sveglio dal sogno ad occhi aperti della fuga. L’impossibilità è complice dell’immaginazione, la possibilità è complice di 16 passi indietro, 24 passi girati a sinistra, 1 porta, 2 rampe di scale e ancora 13 passi.

Le nuvole non sono riuscite a sostenere lo sguardo del sole, si sono sciolte. Piove.

Rannicchiata sul lettino , che solitamente accoglie gli scazzi miei, la forma della crisi ha l’aspetto di un tempo finito. L’unico modo per sfuggire ai pensieri sarebbe stato quello di dormire.

È mezzogiorno già da un po’. Tocco i capelli sparpagliati sul viso, ci sono tracce d’amore. In cucina un barattolo di cioccolata e un messaggio da inviare.


Testo e immagine: Laura Manfredini


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