La calda luce di quel momento contribuì a ritemprare per qualche istante il mio spirito e fu una delle poche lame che riuscì a squarciare le fosche nubi che, pressoché immobili, sovrastavano la mia giovane vita.
Successivamente il mio corpo ricominciò inesorabilmente ad urlare di dolore costringendomi ad una vita di quasi clausura sempre più dipendente dall’aiuto e dal conforto donatimi da chi mi circondava.
Tra questi il mio nuovo vicino di casa, l’istrionico e facoltoso Giorgio Rea grande appassionato di poesia che in più di un’occasione si fece trovare disponibile ad assistermi e a supportarmi fino a pagarmi anche delle cure.
Isaac Elton, malato compagno di sventura che allietava le mie passeggiate a cavallo fortemente consigliate ad entrambi dal dottor Clark il quale, fedele al Giuramento di Ippocrate, mai si risparmiò nel tentativo di ledere le mie sofferenze attraverso cure e restrizioni alimentari mirate. Finanche il salasso mi presentò come nuovo amico.
E naturalmente Joseph, il mio caro amico Joseph Severn, la candela sempre accesa accanto al mio capezzale.
Benché lo desiderassi, scrivere una lettera divenne ben presto cosa ardua. L’ultima che riuscii a comporre è datata 30 novembre 1820 e la indirizzai a Charles Brown, il più intimo degli amici.
Da quel momento in poi, mi fu dolorosamente impossibile riprendere in mano il pennino.
Con quegli ultimi tratti d'inchiostro, dissi addio a Charles, a Lei e al mondo.
Mai avrei pensato che persino l’atto di aprire un libro sarebbe diventato un giorno fonte di indicibili sofferenze.
Ricordavo perfettamente i primi piaceri della lettura, le avventure del naufrago Crusoe, i viaggi del Capitano Cook, e poi la scoperta delle antiche favole greche, dell'Omero tradotto da Chapman o, ancora, i sogni ad occhi aperti fatti sfogliando il dizionario mitologico di Lemprière con le sue pagine piene di riproduzioni di marmi e sculture di epoche mitiche e gloriose.
Nella mia vita molto ho viaggiato nei reami d'oro. Quante dorature sui tagli dei libri ho spalancato per saziare la mia infinita fame!
Ma tutto era ormai finito. Anche quelle mille escursioni tra le pagine dei libri mi sembravano appartenere ad un lontanissimo passato di normalità tramutatosi in un abisso di dolore.
Spesso, durante il mio soggiorno romano, ebbi la sensazione che la mia vita fosse in realtà già conclusa.
Più passavano i giorni, più mi convincevo che quella che stavo conducendo era un'esistenza postuma.
Sentivo i sintomi della malattia errare dentro di me.
Nel momento della mia partenza dall’Inghilterra, i miei dolori erano concentrati nei polmoni.
Nei giorni di piazza di Spagna li avvertii allungarsi verso il basso come a volersi prendere anche lo stomaco.
Non contenta, la mia tubercolosi polmonare stava provocando un lento sanguinamento nell'intestino.
I tormenti di quella malattia non mi erano nuovi.
Anni addietro avevo osservato, impotente, prima l’acuirsi delle sofferenze e poi la morte di mia madre seguita da quella del mio amato fratello Tom spiratomi tra le braccia.
Ero quindi ben conscio di quanto mi stava accadendo.
Il mio corpo sarebbe stato devastato da un male che, come un'ombra maligna, seguiva da tempo la mia famiglia.
La sera in cui, dopo aver tossito, vidi rischiarato dalla flebile luce di una candela il rosso vivo del mio sangue, compresi subito che si trattava di fluido arterioso e che quelle gocce impresse sul cotone erano la mia definitiva condanna in quanto firma inconfutabile di chi è malato di tisi.
Nonostante la completa abnegazione di Severn, del dottor Clark e di un’altra manciata di amici, mi sarei lentamente spento.
Così, una muta disperazione divenne l’abitudine che vestiva costantemente il mio essere mentre, prigioniero, me ne stavo confinato in camera facendomi raccontare brandelli di vera vita dai miei sensi celati da una finestra.
In quei giorni, i gradini di Trinità dei Monti visti da dietro al vetro, mi parvero come acqua che precipita da una immane cascata. Questa visione mi causò un forte senso di vertigine.
In quei momenti, benché per scampare al crepacuore rifuggissi volutamente il pensiero di Lei, allo stesso tempo mi trovavo a maledire il fato recriminandogli di non avermi posto accanto la mia amata durante gli anni vissuti in perfetta salute.
Ero assolutamente convinto che, a quei tempi, la sua vicinanza avrebbe potuto essere uno solido scudo da frapporre a qualsiasi malattia.
Con pazienza cercai di sopportare le mie miserie. Oh che sorpresa scoprire quanta miseria possa contenere e sopportare il cuore umano!
Le pagine del calendario scorsero veloci fino al Natale il cui imminente arrivo, ci fu annunciato dalla musica dei pifferai di strada, contadini ricoperti di pelle di capra che, discesi dalle montagne del vicino Abruzzo, giungono ogni dicembre a Roma per suonare serenate alla Vergine.
Passai quei santi giorni quasi sempre rinchiuso nella mia abitazione con il povero Joseph a farmi una paziente e solitaria compagnia intervallata, ogni tanto, dalle strane e ripetute note dei musici che attraversavano i sottili vetri delle finestre.
Mio fraterno pittore d’Inghilterra, quanti momenti di noia deve averti regalato la triste condizione del tuo compagno di viaggio!
Anche il nuovo anno fece capolino accompagnato da pallide e fredde nubi a sorvolare un'immaginazione che, lasciata libera di riaffiorare tra un tormento e l’altro, pareva prendersi gioco della mia mente e del mio cuore proponendomi immagini orribilmente vivide di Lei.
In quei frangenti non c’era nulla di interessante al mondo da avere il potere di distogliere il mio addolorato pensiero rivolto a Lei sola.
L’inarrestabile Crono continuò nella sua infinita corsa portandoci febbraio e un periodo che, mi era stato raccontato, i romani amano particolarmente.
Mai dimentico degli antichi e selvaggi Saturnalia, il popolo romano attende sempre con ansia l’arrivo del Carnevale.
Avevo saputo dalle cronache dell’amico Shelley e del mai domo Byron, che il sopraggiungere di questa antica celebrazione del caos sembra ricoprire con un invisibile manto di follia l’intera città.
A mezzodì del primo giorno di festa, al rintocco della campana del Campidoglio, qualcosa di magico pare stravolgere la composizione dell’aria.
L’euforia di quegli attimi dona ai romani il coraggio di recidere, per qualche giorno, i legami con buona parte delle regole del vivere civile.
Da quel momento in poi, l’ordine viene sovvertito permettendo a tutte le classi sociali di abbattere momentaneamente i propri steccati.
Tutti persi tra gli inebrianti fumi e vapori diffusi in città dal Dio Bacco, i romani seguono l'esempio di Rugantino e della sua allegra e strampalata compagnia di maschere, abbandonando la normale moderazione e gettandosi a far bisboccia tra le strade e le piazze.
Tante volte, nei miei anni inglesi, avevo immaginato di essere in piazza del Popolo o affacciato da uno dei tanti balconi di via del Corso, per assistere alla folle corsa dei cavalli berberi scossi che, seguendo una tradizione secolare, la domenica di Carnevale si lanciano, anarchici e selvaggi, lungo il dritto viale alla volta del lontano traguardo di piazza Venezia.
Dei berberi lasciati liberi di correre senza padrone per le vie di Roma, avevo letto per la prima volta nel Paradiso di Dante, sognando di essere un giorno annoverato tra i nobili, gli artisti o i semplici viaggiatori che giungono da ogni dove per assistere ad uno spettacolo capace di regalare emozioni forti e indimenticabili.
Continuavo a fantasticare immaginando di attendere con impazienza il tramonto del Martedì Grasso per poi lasciare furtivo l’uscio di casa protetto da una maschera in volto e tenendo tra le mani una candela, un lumino, una fiaccola o una lanterna.
Così preparato, avrei imboccato via del Corso per tuffarmi nella magica e seducente festa dei moccoletti di cui avevo saputo ancora una volta attraverso i diari del buon Goethe.
Mi sarei intrufolato tra migliaia di fiammelle in movimento, per sbellicarmi dalle risate osservando le follie di quei momenti, apice assoluto del godimento di un intero popolo.
Avrei fatto tutto questo stando ben attento a non farmi spegnere da qualcuno quella sorta di coda di sorcio luminescente che mi portavo dietro.
In caso contrario, sarei stato costretto a dover mostrare al mondo il mio volto. Questa sapevo essere l'unica e ferrea regola da rispettare in quella notte di spiriti e fuochi fatui.
Nulla, nulla di tutto ciò vidi, respirai, provai, vissi.
In realtà, quei giorni di baccano e pazza festa, la cui lontana eco giungeva alle mie orecchie attraverso le finestre, preannunciavano solo l’avvicinarsi della fine.
Il buon Joseph non mi lasciava quasi mai, vegliandomi spesso anche di notte dopo avermi letto libri in molti momenti della giornata.
Con l’arrivo delle ore più buie accendeva un fuoco ben sapendo che amavo il crepitio dei ceppi ardenti e la sua ipnotica compagnia.
In quegli ultimi giorni, il caro Severn non si limitava solo a queste attività ma mi preparava da mangiare, mi rifaceva il letto, mi spazzava la stanza e mi sorreggeva quando, ogni tanto, provavo a fare due passi.
L'unica e sola verità è che senza Joseph Severn sarei certamente morto in una solitudine imbevuta di squallido abbandono.
Ma adesso basta ricordare, basta raccontare del mio viaggio.
Sono stanco. Molto stanco. Sento di essere vicinissimo alla fine.
I miei occhi, annebbiati da stanchezza e tormento, intravedono fuori il leggero bagliore dei lumini a olio che rischiara appena le facciate dei palazzi.
Inspiegabilmente, quella visione fa riaffiorare ancora una volta in me il ricordo di chi, tempo prima, mi rese poeta mostrandomi cosa si cela davvero dietro la parola amore.
Lei, la mia amata Fanny.
Lei alla quale, sin dall’inizio di questo mio ultimo pellegrinaggio, ho avuto paura di scrivere.
Lei da cui ho avuto il terrore di ricevere una lettera perché convinto che scorgendo la sua calligrafia il cuore mi si sarebbe spezzato.
Anche ora, oppresso da vapori oscuri e da un sudore di morte, mentre sento che la mia vita sta scivolando via tra il ribollire continuo dei miei umori intervallato da improvvisi sbocchi di sangue, anche ora la mia mente e il mio cuore sono fermi sul volto di Fanny.
Più sento che la vita mi sta inesorabilmente lasciando, più ho voglia di estrarne il succo primordiale fatto, ne sono certo, di pura bellezza e sincero amore.
Caro Severn fraterno amico, vieni qui.
Io mi sollevo, sto morendo. Morirò facilmente.
Non spaventarti e sii saldo.
Il momento, grazie a Dio, è arrivato.
Quando tutto sarà finito, fa che le mie spoglie riposino in un prato di Roma circondato da pini e cipressi.
Lasciamo alle margherite e alle rose la libertà di crescere su questo povero giovane inglese che tanto ha amato la vita.
E, a sigillo di quello che sono stato, non fare incidere su pietra il mio nome ma solo queste parole:
“Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell'acqua"
FINE
- POST MORTEM -
A tre giorni dalla morte, il corpo di John Keats fu sepolto nel cimitero acattolico di Roma dove si trova tuttora. Sulla lapide, posta a pochi passi dalla Piramide Cestia, non fu inciso il nome del poeta ma la frase da lui stesso scelta. Tuttavia, i suoi amici John Severn e Charles Brown vollero farla precedere da queste parole:
“Questa tomba contiene tutto ciò che fu mortale di un GIOVANE POETA INGLESE, che sul suo letto di morte, nell’amarezza del suo cuore verso il malvagio potere dei suoi nemici, desiderò che queste parole venissero incise sulla sua lapide”.
Secondo le leggi pontifice dell'epoca, gli oggetti del poeta, compresi i mobili e la carta da parati, vennero dati alle fiamme nella convinzione che sarebbe servito a sanificare l'abitazione di piazza di Spagna. Tutto andò in fumo per sempre tranne una cosa.
Le ultime lettere ricevute da Fanny, che John non ebbe mai il coraggio di aprire per non rivivere il dolore di non poterla più rivedere, furono sepolte insieme a lui.
Il ricordo di John Keats e della sua parentesi di vita romana, sopravvive ancora oggi tra le mura dell'edificio di piazza di Spagna che lo ospitò a cavallo tra il 1820 e il 1821. Questo grazie alla Keats-Shelley Memorial House, una casa museo inaugurata nel 1909 alla presenza del re Vittorio Emanuele III.
La casa museo contiene una ricca collezione di quadri, sculture, manoscritti, oggetti e prime edizioni delle opere di John Keats, Percy Bysshe Shelley e Lord Byron, ovvero i più importanti esponenti della seconda generazione romantica inglese. Al suo interno è inoltre presente una ricca biblioteca specializzata in letteratura romantica, che conta oltre ottomila volumi. La stanza nella quale visse e morì il poeta in quel lontano 23 febbraio del 1821, è stata ricostruita e arredata con lo stesso tipo di mobilia presente all'epoca dei fatti. Ancora oggi è meta di pellegrinaggio continuo da parte di appassionati di letteratura, amanti della poesia e sognatori provenienti dall'Inghilterra e da altre parti del mondo.
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