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Diario di viaggio - Capitolo I


Mi imbarcai sul brigantino poco prima che iniziasse la stagione delle nebbie e della morbida abbondanza.

Era quel momento dell'anno in cui l'aria e il sole, con i loro respiri, gonfiano la zucca e rendono pesante l’uva al traliccio.

I dottori mi imposero la ricerca di un clima più adeguato, pena la morte entro la fine del prossimo inverno, sentenziarono.

Allora, con la speranza di sfuggire al deperimento da peste bianca e di ripristinare la salute che affondava, mirai al Mediterraneo, mirai all'Italia.


L'Enotria di tempi remoti e ormai perduti, significava vita, speranza di un fiore non ancora sbocciato.

Guardando il mare immaginavo la Penisola come un libro che custodisse la lettura di un racconto il cui finale poteva ancora mutare.


Attraversato l'estuario, l'immensa bocca del Tamigi ci rigurgitò nel Mare del Nord, alla completa mercé di Poseidone.

Pochi giorni dopo, mentre ci dirigevamo a sud con il porto di Napoli cerchiato sulle carte nautiche, giunti nel Golfo di Biscaglia il titanico scotitore della terra diede sfogo ai suoi capricci.


Smosse il suo tridente pungolando legioni di tritoni ed ippocampi che, obbedienti, cominciarono una danza da render folli i flutti.

Una possente burrasca si abbatté sul nostro veliero gonfiando paurosamente il fiocco e facendo sentire il suo alito di morte sull'albero, sul bompresso e sulle nostre vite.

La nave rollava paurosamente rendendo me e i miei compagni di cabina, alla stregua di biglie strette nella gigantesca mano della Nera Mietitrice intenta a smuoverci per il suo diletto.

Ad ogni oscillazione, gli oggetti tintinnavano in tutte le direzioni e noi venivamo sbattuti da una parte all'altra delle brande.


È proprio vero: al mondo non c’è nulla di stabile e l'oceano ne è maestoso testimone.

Fortunatamente, il suo tumulto, per divenire sublime armonia, concede ogni tanto spazio a momenti di quiete.

Solo grazie a questi il vascello ritornò tenacemente sulla rotta iniziale dopo essere sopravvissuto a tre giorni di tempesta.


Con il mare più calmo, ebbi il desiderio di trascrivere un mio vecchio sonetto dedicato a Lei, su una copia datata 1806 dei "Sonetti" di Shakespeare che mi ero portato dietro.

Scelsi volutamente di trascrivere "Bright Star" sulla pagina a fronte di "A Lover’s Complaint", uno degli scritti che preferivo tra i tanti lasciatici in eredità dal Bardo.

Dopo trentacinque giorni di duro veleggiare, intervallati da una manciata di soste lungo città costiere, il golfo del sole ci accolse nel suo grande e caldo abbraccio.

Il viaggio mi aveva messo a dura prova ma, in quell'istante, gli occhi stavano riscuotendo per mio conto il giusto credito.


Vista dal mare, Napoli si spalmava lungo le colline all'orizzonte come un acquerello messo su tela da una titanica mano divina.

Le case dai colori pastello, emergevano qua e là come funghi in un prato tra giardini terrazzati, numerose vigne e tanti oliveti.


Mentre ci avvicinavamo al porto, spostando lo sguardo verso destra, guardavo il Vesuvio e l'immensa linea di nuvole che lo sovrastava.

L'immane bocca dormiente, seguendo il lento sorgere del sole in cielo, cambiava gradazione di colore e pareva concedersi voluttuosamente al mio sguardo.

Quella visione sublime venne ben presto rovinata dalla notizia che il nostro arrivo era stato preceduto da dispacci funesti circa lo scoppio di un'epidemia inglese di colera.

Quarantena, questo fu il nome della nostra casa che, serrata tra file di altre navi, per dieci lunghissimi giorni ci donò un limbo di promiscuità e mortificazione dei sensi.

Dolori lancinanti tormentarono di continuo le mie membra di cristallo e non mi concessero mai il lusso di farmi coinvolgere dalle mille novità distanti solo pochi passi.

Dal chiuso della mia cabina udivo suoni di canzoni, echi di conversazioni e il crepitio delle risate che, infrangendosi le une sulle altre, mi giungevano dalle banchine, dalle strade, dai vicoli e dalle piazze.

Ah se fossi stato in buona salute! Una risma di carta non sarebbe bastata per descrivere quella città di mare che pareva non dormire mai.

Oltre all'amico pittore Joseph Severn, miei compagni di viaggio erano due bauli che contenevano un cappotto, alcuni abiti, libri e ricordi di Lei.

La vista di questi ultimi, faceva dolorosamente vibrare la mia immaginazione e il mio cuore.

Il berretto foderato dalle Sue mani, il coltello e la custodia d'argento, il pegno di una ciocca dei Suoi capelli chiuso in un medaglione, un taccuino e una pietra.

Nulla di quello che mi circondava avrebbe potuto distogliermi da Lei, ero un monaco e il mio monastero si chiamava immaginazione.


Il giorno d'Ognissanti che, ad ogni latitudine, oscilla tra leggende e notturni sabba di libri, compii venticinque anni e toccai finalmente l'agognata terra.

Trascorsi una settimana nell'hotel Villa di Londra in attesa del visto per Roma con, nel petto, i carboni ardenti di un amore che travolgeva disordinatamente i miei pensieri rivolti a una giovane conosciuta ai tempi di Hampstead.


Continua...



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