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La cerca (parte prima)

Non sentivo più il sibilo. L’antico gigante si ergeva davanti a me scuro e silenzioso. Eravamo soli al centro di quel luogo primigenio talmente vasto da impedire all’occhio umano di scorgerne i confini. Mi fermai. Nell’attimo più importante, dalla mia memoria riaffiorarono improvvisi alcuni ricordi di quanto vissuto lungo il percorso seguito per arrivare sin lì.

Quando il vecchio senza età imbastì il cerchio a cui avremmo dovuto sederci, ci disse che lo aveva fatto pensando alla sfericità del mondo. Aggiunse anche che un giorno, uno solo tra i centocinquanta avrebbe avuto accesso all’infinità verità. Allora molti gli chiesero cosa intendesse e il nome del prescelto. A quella domanda l’anziano dalla lunga barba grigia si limitò a rispondere che tale privilegio sarebbe stato solo del puro. Mentre pronunciava la profezia, con le proprie oscure arti Merlino realizzò uno scranno che ordinò venisse immediatamente coperto da uno spesso drappo di velluto rosso. «A questo seggio potrà sedere solo l’eletto» disse. Nacque così il Seggio Periglioso, l’unico tra quelli che circondano la Tavola Rotonda ad essere rimasto sempre vuoto in attesa che la profezia si avverasse.

Il tempo passò, le stagioni volarono via come fanno le foglie dell’acero in ottobre. Il regno crebbe in dimensioni e prosperità. Quella prosperità fu però la melodia che annunciava l’avvento del tempo della corruzione. Simile all’immondo serpente che aveva strisciato tra i rami del melo prima dell’inizio del tempo, ovunque pian piano l’umana degenerazione tornò a dilagare. Ricordo che in quei giorni di cambiamento udimmo uno sconsolato Merlino affermare «La sciagura degli uomini è che essi dimenticano». Il vento mutò rapido, simile alla gelida aria invernale che prende impetuosamente vita anticipando l’arrivo di una furiosa tempesta di neve.

Giunse infine il tempo in cui carestia e pestilenze cominciarono a calare il loro lugubre velo su tutte le contrade. Il re, supportato dai suoi baroni e da noi cavalieri, provò in tutti i modi a fronteggiare quella notte senza stelle che pian piano stava offuscando il mondo. Vani furono i tentativi. Infinita tristezza e dolore si impossessarono di Artù, del suo popolo e di noi cavalieri. Cominciammo tutti a mutare nell’aspetto e nell’umore. Ci parve che la morte, con fare subdolo, volesse trascinare con sé il nostro amato sovrano e, con lui, tutto il resto. Le pene erano però solo cominciate. Tra lo sgomento generale, ci accorgemmo che Merlino era improvvisamente scomparso alla maniera dell’airone cenerino sul finire dell’estate. Il regno era ormai in cammino lungo la via nera e, questa volta, a nulla sarebbero servite spade, lance, erbe o unguenti. Poi un giorno accade un prodigio.

Tutti noi eravamo seduti alla Tavola Rotonda, poiché Artù ci aveva mandati a chiamare. Fuori imperversava una potente tempesta. Quando fummo al suo cospetto, il sovrano ci confessò di non conoscere il motivo di quella convocazione ma che la necessità impellente di incontrarci era nata da un sogno fatto la notte prima. Un sogno di cui non ricordava più nulla. Eravamo persi nel silenzio disperato e imbarazzato di quella chiamata, pensando segretamente che la follia si stesse impossessando della figura grigia e curva che sedeva sul trono. Davanti a noi avevamo lo spettro di quello che un tempo era stato un uomo. All’improvviso, nei nostri occhi balenò una luce fortissima seguita, pochi istanti dopo, dal terribile rombo di un tuono. La spessa coltre di nubi si aprì lasciando passare la luce della luna. Facendosi largo tra i drappi della grande finestra del salone reale, essa portò in mezzo a noi l’eterea immagine di una coppa. Il Graal, fonte di salvezza eterna, restò solo per pochi attimi tra quelle mura.

La visione sfuggente dell’impossibile avvenuto sotto i nostri occhi, bastò ad infonderci calore, energia e la più pura delle gioie. A distanza di lungo tempo dall’ultima volta, vedemmo il nostro grande re riconquistare l’antico vigore. Artù si alzò e con voce sicura e potente spezzò il silenzio pronunciando queste parole: «Tutto adesso mi è chiaro. Per porre fine a questi giorni di tristezza e morte e per ridare speranza al mondo, il più puro tra voi dovrà abbeverarsi all’infinità verità del Graal, la coppa che contiene il sangue sgorgato dal costato del Cristo. Partite presto, partite alla sua ricerca, ma sappiate che molti tra voi non torneranno mai più a sedersi a questa sacra tavola perché condannati a perdersi dietro i fuochi che vagano lungo le paludi di ciò che è dopo la vita».

Poco dopo l’alba del mattino seguente, un lungo corteo di cavalieri ricoperti d’acciaio, ornati di preziosi tessuti e carichi di tutto l’equipaggiamento necessario per affrontare un viaggio ricco di incognite, omaggiò all’unisono il proprio re. Stando affacciato dalla finestra di una torre e tornato ad incurvarsi su sé stesso quasi a simboleggiare un regno ormai sul punto di spezzarsi, Artù rispose con un saluto e un profondo inchino. Vidi la sua Signora porgergli un fazzoletto bianco. Il nostro sire aveva le guance rigate dalle lacrime. In cuor suo lo sapeva. Sapeva che non avrebbe mai più rivisto quella grandiosa fratellanza d’armi che rappresentava il meglio delle virtù degli uomini. Sapeva che in seguito a quella missione, essa si sarebbe sfaldata e mai più rinsaldata.

Quanto accaduto la notte prima non ci aveva fornito punti di riferimento. Non avevamo coordinate da seguire. Nulla sapevamo se non che, molto tempo prima, Giuseppe d’Arimatea l’uomo che aveva raccolto le sacre spoglie del Cristo morto, era giunto sulla nostra isola partendo dalla lontana Gerusalemme. Con sé la leggenda affermava che portasse anche una coppa contenente il sangue del figlio di Dio. Una coppa dall’immenso potere che, in seguito, il pio uomo aveva nascosto da qualche parte. Così, poveri di informazioni utili ad indicarci la via, dopo esserci allontanati di circa una lega dalle mura del castello, ci salutammo prendendo ognuno una direzione diversa da quella scelta dagli altri. Per molti quello sarebbe stato un addio. Da quel momento in poi, l’unica stella cardinale a cui affidarci avrebbe avuto i contorni intangibili della fede che ciascuno di noi poneva nell’effettiva riuscita dell’impresa.

Continua…



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