In casa ho da tempo suddiviso le librerie in due tipologie. La prima è caratterizzata da scaffali dalle linee più moderne e dai colori chiari. È dedicata al vecchio e al nuovo, ossia a quei libri il cui anno di edizione va dalla metà dell'Ottocento fino ai giorni nostri. La seconda segue linee decisamente più datate e ha i colori naturali del legno. Questa custodisce gli antichi, vale a dire quei volumi stampati dai primi decenni dell'Ottocento a ritroso fino all'alba del Cinquecento.
Non possiedo incunaboli, preziosissimi volumi usciti dai torchi degli stampatori tra il 23 febbraio del 1455 (giorno in cui Gutenberg ultimò la sua celeberrima "Bibbia a 42 linee") e il 31 dicembre del 1499. Giusto per capirci, si tratta di capolavori di stampa come questo in basso.
Prima o poi, uno di loro farà un viaggio di sola andata verso l'uscio attraverso il quale si accede alla mia casa di carta. Quel giorno, completamente rapito, guarderò con occhi sognanti il nuovo arrivato, lo accarezzerò, lo sfoglierò e ne annuserò la fragranza che, probabilmente, mi ricorderà qualcosa a cavallo tra l'odore della vaniglia e del caffè misto ad una punta di umidità. Mentre farò tutto questo, ne sono certo, il mio pensiero sarà parallelamente rivolto ad altri.
A Giacomo, il libraio di Barcellona, raccontato da un Gustave Flaubert appena adolescente. A Sylvestre Bonnard, l'accademico nonché eccellente bibliofilo, nato dalla penna di Anatole France.
A Peter Kien, l'esimio sinologo e folle bibliomane, partorito dalle infuocate visioni di Elias Canetti.
A Carlos Brauer, il collezionista di libri nato dalla fervida fantasia di Carlos María Domínguez. Quel giorno, come oggi, il loro ricordo mi servirà da monito ricordandomi che il confine tra bibliofilia e bibliofollia può essere molto labile.
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