Detto senza infingimenti, la giovane signora Rosa ebbe col citato sig. Mario una tresca amorosa, l’unica di tutta la sua vita. Fu così inaspettata e distante dalle regole cui da sempre si era attenuta, che in seguito le sembrò di aver vissuto per quel breve periodo nel corpo di un’altra. Un’infatuazione, come spesso avviene, scambiata per amore. Forse fu la giovane età, o forse fu a causa della scoperta, da parte del professore, dello sport delle bocce, che quell'estate praticò con assoluta dedizione partecipando a tutti i tornei organizzati sui lidi. Non è escluso, dunque, che potrebbe essere stata anche la noia e il molto tempo a disposizione a indurla in tentazione. Chissà. Sta di fatto che accadde.
Il Sig. Mario aveva quarant'anni, era il fratello del proprietario della pensione Goldoni che ospitava i coniugi de Bartolis, dava una mano in cucina, in amministrazione, a volte in sala.
Non si può dire che fosse bello né particolarmente elegante, ma una sera d’agosto, di quelle che combinano disastri ogni estate, sulla verandina al piano rialzato della sala mensa, si mise a raccontare della guerra, della fuga per sfuggire ai rastrellamenti, della montagna, del comandante partigiano e del fucile, insomma della vita sua. E lo fece così bene, che lei ci pensò tutta la notte e pure il giorno dopo. E quando nella sua camera il sig. Mario la baciò, lei lasciò fare. Il professore de Bartolis era in spiaggia a colpire pallini e ne avrebbe avuto per ore. E per i giorni successivi altre ore, e poi ancora ore.
Adesso, lasciando fuori la porta l’intimità della vedova de Bartolis, rilevante ai fini della storia è il fatto che il partigiano Mario s’innamorò follemente, tanto che giunto il giorno della partenza desistette dall’affrontare il professore solo perché fu Rosa a scongiurare di non farlo. Si accordarono che avrebbe provveduto lei, con calma, al ritorno a casa. Naturalmente, com’era logico che avvenisse, non ottemperò. Lui, che certo qualche dubbio dovette sfiorarlo, quando si salutarono non si diede per vinto, qualcosa avrebbe fatto - disse - e prima o poi lei sarebbe stata sua per sempre. E cos’altro avrebbe potuto fare se non scrivere al professore rivendicando l’amore per Rosa?
La lettera, che così provvidenzialmente era rimasta dimenticata per decenni in un capannone di smistamento postale a mo’ di relitto incagliato in fondo al mare, buttata lì a certificare il naufragio di quell’amore estivo, tanto incautamente era tornata alla luce per finire il suo viaggio.
Seduta in mezzo al letto nel buio della notte, fu proprio questa la frase che pensò la professoressa, oltre a vari aforismi sulla vita che niente dimentica e tutto restituisce. E si immalinconì moltissimo.
"Oh Mario Mario” - pronunciò con voce rotta dall'emozione. Il ricordo era stato così potente da spedirla di nuovo tra quelle braccia, e di nuovo le sembrò amore. Naturalmente anche questa volta si sbagliava.
Al rientro da Riccione, i primi giorni furono scanditi dall’ansia crescente che Mario avrebbe potuto mettere in pratica il suo proposito di “fare qualcosa” prima che lei fosse riuscita a parlarne al professore. Trascorsa una settimana però, la sua ferma decisione di affrontare lo scandalo, perché di questo si trattava, aveva cominciato a vacillare, tant’è che una mattina, al risveglio, scoprì di averla declassata a mera intenzione condizionata da molti se. Dopo un mese di silenzio, l’intenzione si era trasformata in sollievo, dopo due in risentimento.
“Se Mario non aveva fatto nulla, ma nulla di nulla, perché mai avrebbe dovuto farlo lei?” Così, un po' alla volta, l’aveva dimenticato.
Aveva invece tra le mani la prova che si sbagliava, che Mario aveva tenuto fede al suo impegno. Chissà cosa aveva pensato di lei. Caro che era stato.
Quella lettera, se fosse stata recapitata nei tempi dovuti, avrebbe certamente modificato il corso della sua esistenza.
La professoressa si chiese se davvero avesse dimenticato Mario o se piuttosto, con gli anni e la nascita dei figli, non l’avesse solo accantonato.
Il senso di colpa fu tale che per poco non scoppiò in lacrime. Il ricordo aveva scatenato in lei una ridda di emozioni, una mistura commovente di tenerezza e passione. Tutta colpa del giovanile animo romantico, sedato per decenni dall’anestetico professore, che ora si dibatteva, riprendeva vigore.
Poi realizzò che Annabella e Paolo aspettavano di leggere la lettera, erano ansiosi di farlo, così di botto il senso di colpa trovò una ragione ben più attuale e concreta. Si profilava una catastrofe, altro che tenerezza e passione. Sarebbe voluta scomparire.
Maledizione- pensò - si era incastrata da sola. Ansia e sudore divennero tutt'uno.
Nel letto non resisteva, si sentiva soffocare, allora si alzò, urtò il comodino, cadde l’abat jour che si ruppe con un fracasso infernale, Mirjna dalla stanza attigua urlò – “ Signora che succede?”.
Seduta in cucina con una tazza di camomilla tra le mani, pensò che avrebbe potuto rimandare la partenza per Formia, e con essa l’apertura della lettera, adducendo un malessere. Certo, il momento sarebbe stato solo rinviato, ma avrebbe avuto tempo per studiare una strategia.
"Signora, come si sente?" le chiese Mirjna. "Non bene", rispose accentuando la voce lamentosa, e si fece riportare a letto.
Quella decisione però non l’aiutò a dormire. Doveva trovare le parole giuste per essere credibile, per evitare che i figli, pur accantonando l’idea di Formia, le chiedessero di aprire la lettera. Avrebbe potuto sminuire la faccenda, dire che si trattava di roba da poco, un foglio con un disegno, oppure una poesia, ecco, una poesia che aveva scritto il babbo ma niente di così importante. L’avrebbero letta in seguito. Non era un grande idea, ma almeno avrebbe guadagnato tempo. Certo, poi avrebbe dovuto scriverla questa poesia, anzi, considerata la sua cecità, avrebbe dovuto dettarla. Ci voleva una persona fidata, di quelle che non fanno domande, riservata, discreta. Scartando Mirjna, la persona ideale sarebbe stata “l'amica del cuore”, personaggio di pura fantasia però, visto che lei non ricordava di averne mai avuta una. E poi alla sua età, figuriamoci. Le poche conoscenti con le quali ogni tanto si sentiva al telefono, si sarebbero lanciate su quella storia come lupe fameliche. Occorreva un’altra soluzione. Intanto doveva nascondere la busta. Se i figli avessero frugato nella borsa l’avrebbero trovata. Allora mise i piedi a terra e fece per alzarsi dal letto, quando una stanchezza inaspettata e invincibile le impedì di continuare. Aveva addosso una tale spossatezza, era sopraffatta dalla velocità con cui si erano succeduti gli avvenimenti, non riusciva a tenere il passo. Faticoso, davvero troppo faticoso. A settantasette anni compiuti, ancora non aveva il coraggio della scelte, giuste o sbagliate che fossero.
“Ma che sto facendo - si chiese muovendo appena le labbra - cosa diavolo sto facendo”.
Si vergognò profondamente di aver solo immaginato di raggirare i figli.
Non sarebbe stato affatto facile raccontare quanto era accaduto, ne avrebbero sicuramente sofferto. Avevano nei confronti del babbo una venerazione, lei stessa l’aveva alimentata nel corso degli anni. E anche se tra loro c’erano state frizioni, si erano sempre risolte per il rispetto e nel ricordo del babbo. Ma era giusto, anzi pensò che fosse suo preciso dovere raccontare prima ancora che leggessero il contenuto della lettera. Lei avrebbe spiegato, li avrebbe consolati asciugando le lacrime di Annabella e loro, alla fine, avrebbero capito e si sarebbero abbracciati. Erano adulti, Annabella aveva 54 anni, Paolo 52, ormai esperti degli inciampi della vita. E come altro poteva essere definita la sua storia con Mario se non un inciampo?
Con questo pensiero si acquietò. Dalle serrande filtrava già l’alba.
Li aspettavano tre giorni difficili e lei non avrebbe voluto portare Mirjna, ma loro avevano insistito. “Serve a te e a noi”, avevano detto, così aveva abbozzato sperando che tutto si sarebbe risolto con discrezione.
Il profumo nel giardino era di erba selvatica, mentuccia e mirto. Pensò che non era una leggenda, era proprio vero che quando ti abbandona uno dei sensi, gli altri si acuiscono. Le arrivò forte anche l’odore del mare portato dallo scirocco e le piacque così tanto che avrebbe voluto abitarci per sempre nella villetta del mare. Ma non c’era tempo di sognare, ora doveva trovare la forza di agire.
Entrando in casa, l’odore che incrociò non fu il solito, era strano, dolciastro. Si sedette sulla poltrona e ripassò mentalmente le parole d’esordio per introdurre la storia.
Paolo e Annabella capirono che era arrivato finalmente il momento e spedirono opportunamente Mirjna a fare la spesa. Ci avrebbe messo un bel po’. Bravi i miei ragazzi, pensò.
Così si schiarì la voce, mise insieme tutti gli anni che aveva e da lì pescò la forza e cominciò. Raccontò tutto, ma proprio tutto, dall’inizio alla fine, la parola le usciva sempre più fluida e più andava avanti più si sentiva sollevata, libera. Raccontò della guerra e dei partigiani, della verandina e delle sere d’agosto, un fiume di parole che durò almeno trenta minuti durante i quali non fu mai interrotta. Immaginò le espressioni dei figli e intimamente ringraziò la malattia che le aveva annerito la vista.
Annabella e Paolo erano rimasti muti e allibiti. Non riuscivano a capire cosa c’entrasse quell’incredibile racconto con l’eredità del babbo. La mamma parlava e ognuno di loro faceva mentalmente mille congetture che però non portavano a niente. Perché la mamma stava raccontando quell’episodio? Forse il babbo aveva saputo e l’aveva diseredata? Chissà se poteva farlo. La mamma aveva sempre tenuto nascosto il testamento e ora il rimorso l’aveva spinta a parlare?
In sintesi, erano queste le domande che affollavano la mente di entrambi. Aspettarono fino alla fine in attesa che la mamma parlasse finalmente dell’eredità.
Paolo aveva cominciato ad innervosirsi, anche molto, e quando la mamma ebbe finito le disse “ E allora?” con voce molto alterata.
“Ma no, ma no – rispose tranquillizzante la professoressa che male interpretò l’irritazione del figlio – al ritorno da Riccione feci di tutto per dimenticarlo. Dopo un po’ mi resi conto della sciocchezza che avevo fatto e poi a maggio nacque Annabella, luce mia. Figuriamoci se potevo pensarci più. E ora possiamo leggere la lettera”.
Mentre cercava di prendere la borsa, Paolo gliela strappò letteralmente dalle mani “Dammi la borsa, vecchia” disse con un tono così astioso che la professoressa Rosa D’Acunto rimase impietrita. Non glielo aveva mai sentito prima. Sperò che l’aggettivo fosse rivolto alla borsa, ma lui si era fermato un attimo e poi aveva detto vecchia, così apponendo una virgola molto evidente. Si sentì mortificata e stanca e sì, aveva ragione Paolo, anche vecchia.
Annabella, che era in piedi e fino ad allora era stata zitta, urlò qualcosa a Paolo. Lui la spinse sul divano, poi si avvicinò al tavolo, capovolse la borsa e vi sparpagliò sopra il contenuto.
La busta di un giallo scolorito saltò subito agli occhi di entrambi. Era sigillata e indirizzata al babbo, altri fogli non ve n’erano.
“Mamma – chiese Annabella – ma la lettera del babbo è in questa busta?”
La professoressa era come svuotata. La lunga confessione, la reazione di Paolo l’avevano annichilita.
Anche la voce di Annabella adesso era alterata, ripeteva la domanda scandendo bene le parole. Mentre lei faceva cenno di sì con la testa, Paolo lacerò in malo modo la parte superiore della busta ed estrasse la lettera.
“Ma cos’è, uno scherzo?” urlò
Annabella gliela strappò dalle mani e cominciò a leggere a voce alta, meccanicamente, come a voler cercare tra quelle parole uno spiraglio, un significato recondito:
Giuseppe Rauto e Oretta Picardi annunciano il loro matrimonio per il giorno 30 settembre 1965 che si svolgerà presso il Duomo alle ore 10,00.
I coniugi saranno lieti di salutare parenti e amici al Grand Hotel Excelsior per il pranzo di gala cui la S.V. è invitata unitamente alla famiglia.
E’ gradito un cenno di adesione.
Frosinone 05 settembre 1965.
Altro non era che l’invito a un matrimonio celebrato cinquantacinque anni prima, un maledetto invito a un matrimonio, nessun significato nascosto, neanche a cercare con la lanterna di Diogene.
Dopo un comprensibile momento di smarrimento, i due figli convinti che la madre avesse voluto trarli in chissà quale tranello, le si rivolsero con rabbia:
“Che diavolo è questa roba?”
La professoressa Rosa D’Acunto però, sentiva le voce ovattate e lontanissime, dunque non capì chi dei due le avesse rivolto la domanda. Ne intuì solo il tono minaccioso. D’altra parte una specie di nebbia sempre più fitta le stava invadendo la mente. Seduta in poltrona, aveva reclinato la testa, la bocca spostata all’ingiù pendeva da un lato, un rivolo di saliva le scendeva lungo il mento.
Quando Mirjna arrivò con le buste della spesa, l’ambulanza del 118 partiva da casa azionando la sirena.
L’ultimo pensiero della professoressa D’Acunto, ormai legata alla barella, andò agli sposi Rauto e Picardi. Il professore Augusto de Bartolis aveva giudicato un’offesa grave non essere stato invitato al matrimonio di quei parenti, e da allora non avevano più avuto rapporti con quella famiglia. E, invece, tutta colpa delle Poste.
Paolo, Annabella e Mirjna seguirono in macchina l’ambulanza, facendo lo slalom tra auto che accostavano e altre che acceleravano.
Paolo guidava e faceva due conti: Annabella era nata a maggio del 1966. Da agosto a maggio erano giusto nove mesi. Vuoi vedere, pensò, che è figlia del partigiano? La rivelazione della mamma forse era stata addirittura migliore di un testamento favorevole. Lunedì avrebbe preso appuntamento con l’avvocato.
Annabella sedeva a fianco e piangeva piano. Anche lei sapeva fare di conto.
Mirjna, sul sedile posteriore si stropicciava nervosa le mani, era preoccupatissima. Se la signora non ce l’avesse fatta a superare quella crisi, sarebbe rimasta momentaneamente senza lavoro. Proprio ora che aveva comprato a rate una macchina usata.
***
Per dovere di cronaca, vanno precisate le seguenti circostanze:
1) Mario non aveva mai fatto il partigiano, in compenso era bravissimo nel raccontare storie;
2) Non si era mai innamorato della signora Rosa D’Acunto. Aveva scommesso con un amico che avrebbe conquistato quella giovane sposa così riservata. Il gioco della scommessa era molto in voga in quegli anni sulla costiera romagnola;
3) Le Poste Italiane nel 1965 avevano effettivamente fatto un’emissione celebrativa del ventesimo anniversario della resistenza. I francobolli non erano però limitati, ve n’erano di tutti i tagli e quell’anno furono massicciamente utilizzati;
4) ONE, com’è evidente, sta per FrosinONE e non per RicciONE;
5) Non è sempre vero che tre indizi fanno una prova.
FINE
Autore: Ottavio Mirra
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