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Tess, a matita (PRIMA PARTE)

Il trillo del citofono mi arriva in lontananza, quasi per caso, mi precipito perché mi sento ricattato da questo avviso, come se fossi in ritardo a un appuntamento o mi fosse stato impartito un ordine che non sto eseguendo. Lo vivo come un obbligo morale e lo vivo con disprezzo, ma non so sottrarmi.

«Chi è?»

Urlo le due parole attaccate una all’altra e con il fiato corto, appena sollevata la cornetta, prima ancora di accostarmela alla faccia. Temevo di poter non arrivare in tempo e sono stato profeta. Infatti, non mi risponde nessuno. Ripeto la richiesta, sempre in affanno di aria, sperando in un risultato diverso che invece non cambia. La seconda volta, ho pure alzato la voce di qualche tono, quasi per rimproverare l’autore del gesto o quasi a impartirgli lo stesso ordine o lo stesso obbligo morale che sento di subire io, l’ho solo strozzata un po’, facendola sembrare quasi un’implorazione. Ci sono rimasto male, perché era più la curiosità che l’interesse, ormai.

Ma il postino non bussava due volte? Mi chiedo distratto, ma più che altro da sciocco, per una battuta ormai ritrita, però evito di aggiungere umiliazione, magari ribattendomi “Eh, non ci sono più i postini di una volta!”.

Esco, sicuro di trovare l’avviso di giacenza nella cassetta, che mi costringerà ad andare all’ufficio postale, fare una fila di mezz’ora, dopo aver perso venti minuti a trovare un posto decente per l’auto e alla fine ritirare un avviso di pagamento. Peggio, potrei dover ritirare una multa o, peggio ancora, una multa in giacenza e trovarne una sul parabrezza, per aver sistemato la macchina in uno stallo di fortuna, chiaramente in divieto. Mentre sto camminando verso il cancello, rimuginando su tutte queste sventure che mi sono elencato, con una precisione che mi è estranea nelle questioni serie, realizzo che è domenica, quindi, non può essere stato il postino ad aver bussato. Praticamente all’istante, mi sembra molto più sensato pensare che siano stati dei testimoni di Geova, venuti a parlarmi del loro messaggio di salvezza, sperando per loro stessi in una ricompensa dall’alto, materiale o spirituale che sia. E li colloco là, davanti alla tastiera del citofono, con il dito ancora a mezz’aria, sono in due, lui un trentenne, solo con la camicia a quadretti e la cravatta blu nonostante il freddo, lei una spenta cinquantenne, ma che dimostra quindici anni in più, per via della gonna scura a pieghe, del maglione con i bottoncini dorati chiuso fino al collo e del frontino in velluto che le tiene in ordine i capelli opachi e grigi. Questa tesi, nonostante la materializzazione fattasi strada nella testa, però, regge ancora meno del postino: non si sarebbero di certo arresi al primo tentativo, anche se solo per un attimo ho temuto di trovarmeli ancora lì, pietrificati davanti il mio cancello. Nel frattempo, sono arrivato alla cassetta che è vuota e intorno non si vede nessuno. Alla prova dei fatti, entrambe le ipotesi erano errate e certo non può essere stato un gruppo di ragazzini in vena di scherzi, per come sono fuori mano. Vuol dire che mi sarò impressionato e avrò scambiato chissà cosa per il citofono. Mi rimbalzano i classici adagi, qualcuno di quelli semplici e familiari, altri decisamente più coloriti e divertenti, ma irripetibili.

Ormai sono fuori casa e tanto vale approfittare dell’aria fresca e pulita che mi invade. Mi alzo il cappuccio della tuta, per l’umidità ancora palpabile del primo mattino, comincio a gironzolare tra i filari delle viti, ma mi distraggo subito rapito dal colore che hanno in questo periodo, dopo la vendemmia. Tranne il blu, ma forse pure quello, a guardare bene, ci trovi ogni sfumatura, creo immagini veloci, con l’odore della terra che apre i pensieri e le possibilità. E, poi, ogni cosa mi riporta sempre a Tess: un riflesso del sole sulle foglie e penso ai suoi capelli, un profumo che svolazza libero e risento l’odore della sua pelle chiara e calda. Non riesco a fare una passeggiata senza pensare a lei. Non mi dispiace pensare a lei, è un modo per tenerci uniti, vivi. Anche un piccolo dolore, in fondo all’anima, una crepa appena percepibile.

L’aria è frizzante, resta addosso lieve come una carezza e mi pompa adrenalina, in questi momenti potrei decidere qualunque cosa e compiere ogni sacrificio, talmente mi sento in forma, in un mix di benessere e buonumore.

Ho acquistato questo posto proprio per godermi il vigneto, il verde, lo spazio che sembra non finire, il lavoro che mi concede. Non c’è un passaggio che non ami: la raccolta, rigorosamente a mano, la compressione degli acini nel torchio, il riposo del mosto, l’affinamento nelle botti, la festa per l’imbottigliamento. Anche le attese, rispettando i tempi della natura, i periodi che potrebbero sembrare morti, ma che sono quelli in cui lei lavora di più e lo fa per te e senza chiedere nulla in cambio, regala beni preziosi che l’uomo da solo non sarebbe in grado di creare. Le uniche cose a essere fuori posto sono i nostri rumori, miei e dei miei collaboratori, che inevitabilmente produciamo lavorando. Alcuni sono rumori fatti di toni bassi, creano un sottofondo sì di fastidio, ma necessario, ci convivi e ti ci abitui, altri non sono propriamente rumori, sono grida e risate che non riusciamo a contenere per la gioia di vivere e di stare insieme, seppur lavorando. Potrebbe sembrare chiasso, ma armonioso, sconquassano la perfezione della natura, ma, al contempo ci integra in essa.

Solo Goos, almeno in apparenza, sembra rispetti la sacralità dell’evento. Ci guarda muto, vigile, come se immagazzinasse energia positiva. Per gli altri è un dobermann, per me è il socio occulto dell’azienda agricola e membro della mia famiglia. Temo diventi anche il padre di mia figlia, metaforicamente, se non lo blocco in qualche modo.

È sempre così che mi volano le ore. Magari esco dalla casa o dal magazzino o dalla cantina per una passeggiata veloce, rigenerante o come questa volta ci capiti per caso in giro per l’appezzamento, ma poi, senza accorgermene, mi ritrovo a distanza di tanti passi tra la vigna, ma pochi nell’adempimento delle mie incombenze. Queste si accumulano e mi tocca poi incastrarle alla meno peggio, per rincorrere il poco tempo rimastomi. Cerco di recuperare affrettando i movimenti, delle gambe soprattutto, riprendo di corsa il vialetto per la casa e supero la corta scalinata con un salto. È diventata quasi ridicola questa sequenza per come si realizzi ogni volta uguale, grattando dal tempo una manciata di secondi, cercando di fare in modo che, sul piatto della bilancia, si pareggino con le ore trascorse tra i filari.

Più di una volta, mi pare di scorgere un’ombra a sinistra che mi fa girare di scatto. Ma è solo vuoto quello che ci trovo, uguale al niente trovato dopo che mi era parso avessero bussato.

Entro a testa bassa e mi metto in moto, ma mesto, come quando a tennis torno alla battuta dopo aver perso un punto a rete.

 

Vivere in campagna è stata una rottura drastica col passato, ma non dolorosa. Quando sono venuto a vedere questo posto, c’era un pezzo di terreno arato da poco, le zolle a riposo prima che fossero rimessi a dimora i semi, di mais credo. Per il resto era tutto distrutto o abbandonato: il casale, gli ettari dietro quel piccolo quadrato smosso, gli attrezzi arrugginiti nel capanno ingombro anche di cianfrusaglie inutili, quando non rotte e inutilizzabili.

Al solo vedere quella piccola porzione di terra curata, viva, fresca, ho avuto la tentazione, a cui ho dovuto resistere, di correrci dentro, infilare le mani, raccogliere una manciata di terra e sentirne il profumo, portandomela al naso con entrambe le mani a coppa. In cuor mio avevo già deciso, prima ancora di sentire il prezzo e se me lo potessi permettere, se valesse quei soldi e che farci dopo. Il venditore, un ingegnere benestante che aveva ottenuto la proprietà in cambio di un debito non saldato, aveva fretta di concludere e smaniava per portarmi ovunque, lungo tutto il percorso, farmi entrare nel casolare, prospettarmi le potenzialità, vendermi pietre e fumo, sogni forse. Quelli che non era riuscito a realizzare. Io, non volevo saperne nulla, invece, avevo già i miei di sogni, nati in quell’attimo, come solo i sogni sanno fare. La proprietà l’avrei conosciuta giorno per giorno, come un partner in una storia d’amore.

In pochi mesi ho riprogrammato la mia esistenza. Non mi è costato molto, in verità: ho sempre fatto l’assicuratore per tradizione di famiglia, non certo per vocazione. A sedurmi era stata l’attività avviata, il calcolo, anche morale, che si erano fatti i miei genitori, le buone prospettive di guadagno. La strada facile, insomma.

Ho venduto l’agenzia, mi sono indebitato, ma contento del lavoro che stessi scegliendo. È da quel giorno che ho una carica forte che mi spinge ad accelerare, non più per abitudine o esigenza, ma per la felicità di sentirmi pienamente realizzato in ciò che faccio. Identificato direi. Certo, non è solo adrenalina quella che mi scorre nelle vene e nel corpo tutto, ma è un miscuglio con la paura ed è bello uguale.

Continua...




Autore: Michele Palmieri


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