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John Keats - DIARIO DI VIAGGIO (racconto completo)


Non conosceva il greco ma riuscì lo stesso

di recente a far parlare gli antichi dèi

LORD BYRON



Angelo di prima classe, arcangelo, serafino, cherubino,

angelo a tutto tondo, angelo a cento carati,

angelo con le ali di prima scelta garantite contro le tarme

non vi è che John Keats.

GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA



CAPITOLO I



Mi imbarcai sul brigantino poco prima che iniziasse la stagione delle nebbie e della morbida abbondanza.

Era quel momento dell'anno in cui l'aria e il sole, con i loro respiri, gonfiano la zucca e rendono pesante l’uva al traliccio.

I dottori mi imposero la ricerca di un clima più adeguato, pena la morte entro la fine del prossimo inverno, sentenziarono. Allora, con la speranza di sfuggire al deperimento da peste bianca e di ripristinare la salute che affondava, mirai al Mediterraneo, mirai all'Italia.

L'Enotria di tempi remoti e ormai perduti, significava vita, speranza di un fiore non ancora sbocciato. Guardando il mare immaginavo la Penisola come un libro che custodisse la lettura di un racconto il cui finale poteva ancora mutare.

Attraversato l'estuario, l'immensa bocca del Tamigi ci rigurgitò nel Mare del Nord, alla completa mercé di Poseidone.

Pochi giorni dopo, mentre ci dirigevamo a sud con il porto di Napoli cerchiato sulle carte nautiche, giunti nel Golfo di Biscaglia il titanico scotitore della terra diede sfogo ai suoi capricci. Smosse il suo tridente pungolando legioni di tritoni e ippocampi che, obbedienti, cominciarono una danza da render folli i flutti.

Una possente burrasca si abbatté sul nostro veliero gonfiando paurosamente il fiocco e facendo sentire il suo alito di morte sull'albero, sul bompresso e sulle nostre vite.

La nave rollava paurosamente rendendo me e i miei compagni di cabina, alla stregua di biglie strette nella gigantesca mano della Nera Mietitrice intenta a smuoverci per il suo diletto.

Ad ogni oscillazione, gli oggetti tintinnavano in tutte le direzioni e noi venivamo sbattuti da una parte all'altra delle brande.

È proprio vero: al mondo non c’è nulla di stabile e l'oceano ne è maestoso testimone.

Fortunatamente, il suo tumulto, per divenire sublime armonia, concede ogni tanto spazio a momenti di quiete. Solo grazie a questi il vascello ritornò tenacemente sulla rotta iniziale dopo essere sopravvissuto a tre giorni di tempesta.

Con il mare più calmo, ebbi il desiderio di trascrivere un mio vecchio sonetto dedicato a Lei, su una copia datata 1806 dei "Sonetti" di Shakespeare che mi ero portato dietro. Scelsi volutamente di trascrivere "Bright Star" sulla pagina a fronte di "A Lover’s Complaint", uno degli scritti che preferivo tra i tanti lasciatici in eredità dal Bardo.

Dopo trentacinque giorni di duro veleggiare, intervallati da una manciata di soste lungo città costiere, il golfo del sole ci accolse nel suo grande e caldo abbraccio. Il viaggio mi aveva messo a dura prova ma, in quell'istante, gli occhi stavano riscuotendo per mio conto il giusto credito.

Vista dal mare, Napoli si spalmava lungo le colline all'orizzonte come un acquerello messo su tela da una titanica mano divina. Le case dai colori pastello, emergevano qua e là come funghi in un prato tra giardini terrazzati, numerose vigne e tanti oliveti.

Mentre ci avvicinavamo al porto, spostando lo sguardo verso destra, guardavo il Vesuvio e l'immensa linea di nuvole che lo sovrastava. L'immane bocca dormiente, seguendo il lento sorgere del sole in cielo, cambiava gradazione di colore e pareva concedersi voluttuosamente al mio sguardo.

Quella visione sublime venne ben presto rovinata dalla notizia che il nostro arrivo era stato preceduto da dispacci funesti circa lo scoppio di un'epidemia inglese di colera.

Quarantena, questo fu il nome della nostra casa che, serrata tra file di altre navi, per dieci lunghissimi giorni ci donò un limbo di promiscuità e mortificazione dei sensi. Dolori lancinanti tormentarono di continuo le mie membra di cristallo e non mi concessero mai il lusso di farmi coinvolgere dalle mille novità distanti solo pochi passi.

Dal chiuso della mia cabina udivo suoni di canzoni, echi di conversazioni e il crepitio delle risate che, infrangendosi le une sulle altre, mi giungevano dalle banchine, dalle strade, dai vicoli e dalle piazze.

Ah se fossi stato in buona salute! Una risma di carta non sarebbe bastata per descrivere quella città di mare che pareva non dormire mai.

Oltre all'amico pittore Joseph Severn, miei compagni di viaggio erano due bauli che contenevano un cappotto, alcuni abiti, libri e ricordi di Lei. La vista di questi ultimi, faceva dolorosamente vibrare la mia immaginazione e il mio cuore.

Il berretto foderato dalle Sue mani, il coltello e la custodia d'argento, il pegno di una ciocca dei Suoi capelli chiuso in un medaglione, un taccuino e una pietra.

Nulla di quello che mi circondava avrebbe potuto distogliermi da Lei, ero un monaco e il mio monastero si chiamava immaginazione.

Il giorno d'Ognissanti che, ad ogni latitudine, oscilla tra leggende e notturni sabba di libri, compii venticinque anni e toccai finalmente l'agognata terra. Trascorsi una settimana nell'hotel Villa di Londra in attesa del visto per Roma con, nel petto, i carboni ardenti di un amore che travolgeva disordinatamente i miei pensieri rivolti a una giovane conosciuta ai tempi di Hampstead.


CAPITOLO II



Ottenuto il visto, io e Joseph salimmo su una carrozza alla volta della città fondata sul colle del Palatino dopo che un fratello ebbe versato sangue del suo sangue.

Messosi Napoli alle spalle, il vetturino diede di braccia provando a lanciare i cavalli come a volersi prendere tutta la sterminata campagna che ci attendeva.

Me ne stavo rinchiuso nella vettura il cui interno di legno foderato di pelle e velluti logori, mi trasmetteva una finta illusione di protezione mentre gli zoccoli delle quattro bestie mordevano terra, fango e pietre alla spasmodica ricerca della grande diagonale che, da oltre duemila anni, scendeva da Roma fino a Brindisi.

Giunti all'altezza della Capua antica, come seguendo la corrente di un affluente, ci immettemmo in quel lungo fiume di terra che è la Via Appia, regina delle lunghe strade.

In quei momenti, mi parve di scorgere in lontananza le antiche rovine dell'arena che, venti secoli prima, aveva forgiato il corpo e il rancore del leggendario condottiero trace, smacco imperituro alla potenza di Roma.

Puntando decisa verso nord, la diligenza attraversò l'ansa di un grande fiume da lungo tempo dedito a cullare, nutrire e proteggere la nuova Capua. Rammentai che in quei territori, quasi mille anni prima, erano sbocciate le prime volgari tracce di una lingua che, secoli dopo, Dante avrebbe elevato a immortale dignità.

Poco dopo aver superato il corso d'acqua, posi il capo fuori dal finestrino e, mentre una dolce brezza accarezzava il mio volto, vidi un lungo rettilineo che tagliava in due la maestosa pianura per poi perdersi all'orizzonte.

Scorsi nitidamente la strada che mi avrebbe permesso di raggiungere la città che, per secoli, aveva retto le redini del mondo. Non avevo dubbi, i romani avevano progettato e realizzato l'Appia al primario scopo di gratificare gli occhi e la mente dei viaggiatori.

Quasi ovunque, ai suoi margini si potevano scorgere le affascinanti vestigia di un passato mitico e glorioso che, quando lasciato libero dai miei tormenti interiori, potevo ammirare con calma visto il lento procedere della carrozza causato dalle pessime condizioni della via.

Lapidi, porte monumentali, chiese, ruderi di grandi residenze, mausolei e mille altre meraviglie, sorgevano in perfetta simbiosi con le campagne circostanti mentre, inesorabili, l'edera e il muschio facevano quello che sapevano fare meglio.

Per lunghissimi tratti, l'Appia passava così vicino alla costa tirrenica, da permettermi di scorgere facilmente il mare.

La sua vista, unita all'aria pura e alla ricchezza dei colori che mi circondavano, mi donava una sensazione di benessere che avevo quasi dimenticato.

Le linee della campagna, fatte di vaste distese ondose, mi apparivano come un oceano fortunatamente più tranquillo e monotono di quello che avevo incontrato nel mio movimentato viaggio dall'Inghilterra al Mediterraneo.

La visione di tanta bellezza fu comunque funestata dalle sofferenze acute e tormentose che affliggevano il mio corpo e che raggiunsero l'apice quando attraversammo le Paludi Pontine. Quel regno incontrastato di acquitrini, insetti e umidità, assaliva e marciva le ossa minando buona parte delle mie certezze circa la fine positiva del viaggio.

Superato quell'ambiente decisamente ostile, il cocchiere mi avvisò che eravamo ormai vicini e, approssimandomi alla capitale del mondo, ebbi la sensazione di provare qualcosa di simile a quanto descritto da Goethe qualche anno addietro quando, oltrepassando la Porta del Popolo, sentì subito sua la città.

In quel momento, un baluginio di speranza rischiarò brevemente la spessa nebbia che mi opprimeva da mesi.

Per un attimo, sognai di giornate vissute all'aria mite intrattenendomi alla vista di divinità ed eroi.

Per pochi istanti sperai fosse verità quanto scritto dall'immortale tedesco nella sua settima elegia romana. In fondo al mio cuore, fantasticavo di potermi presto sentire lieto e gaio nell'urbe, dotato di una nuova forza da contrapporre al grigiore del nord il cui ricordo, come muta foschia, cercava di calare invano sui miei pensieri.

Su, a settentrione, corpo e anima per mesi mi avevano urlato qualcosa che non avevo compreso subito.

Quando forse era ormai troppo tardi, capii che il tempo scorreva rapido e tale nuova consapevolezza mi afferrò con forza la gola.

Se bisognava partire, era necessario farlo subito e così, con un'emozione fatta di tristezza mista a flebile speranza, avevo detto addio all'amata Patria e a Lei.

Adesso, sette giorni dopo aver lasciato Napoli, ero giunto in vista della meta finale del mio viaggio, fiducioso di poter attenuare e poi disperdere i morsi del mal sottile che affliggeva le mie membra.

Quando la carrozza si approssimò finalmente alle colossali mura aureliane, era il 15 novembre del 1820 e tutti i miei sensi furono immediatamente investiti dalla città eterna.


CAPITOLO III



Da timido ospite aprii la porta e misi piede nelle stanze di Roma soverchiato immediatamente dalla sua grandezza.

Imbattendomi nelle pagine di immortali pensatori e di grandi cronisti, l'avevo immaginata e sognata tante volte quando vivevo in terra d'Albione. Tutti quegli sguardi posati su eleganti incisioni, immaginifici dipinti e pagine di libro, adesso acquisivano concretezza stando raccolti innanzi ai miei occhi.

Per raggiungere il cuore del mondo avevo attraversato leghe di mare disseminate di cavalli di Frisia, obbligato a sopravvivere ad una claustrofobica quanto mortificante quarantena. Lo scrittore delle nostre vite aveva annotato sulla pergamena del mio destino anche lunghi giorni passati rinchiuso in una carrozza ad ammirare l'epico spettacolo della via delle vie, rovinato solo da vitto e alloggio scellerati.

Roma, custode dei tesori, dei segreti e della storia di un intero emisfero, da quel mattino di metà novembre divenni per sempre tuo. Roma che salva, Roma che illude, Roma che corrompe spirito e corpo. Eccomi.

Ora che era tra le tue braccia, cosa avevi in serbo per un inglese malato e perennemente adombrato dall'intimo dolore del distacco e della perdita? Avrei sorvolato i tuoi tetti e le tue tante meraviglie come la Fenice o sarei avvizzito come il ciliegio quando è circondato dal gelo?

Del tutto indifferente ai miei pensieri, il cocchiere si addentrò nel dedalo dell'urbe come fa il bracco quando segue la scia della volpe.

Ovunque abbondava una folla costituita dal meglio e dal peggio dell’umano essere. Macellai, artisti, mendicanti, soldati, pollaroli, turisti, bottegai, preti, librai, poveracci, antiquari e vagabondi. Tutti sembravano personaggi di un vecchio dipinto che fissa in un istante ciò che è eterno.

Proseguendo nel budello romano la carrozza attraversò strade che si aprivano di sghembo su grovigli di stretti vicoletti in penombra dai quali ogni tanto risalivano esalazioni tanto esotiche quanto maleodoranti.

Ogni tanto mi affacciavo dal finestrino e guardavo verso l’alto alla ricerca di spicchi di cielo.

Sbucammo da questi luoghi dalla topografia per noi completamente ignota, ritrovandoci sulla lunga e dritta via del Corso, eco dell’antico tratto urbano un tempo conosciuto come Via Flaminia. La vettura stava tagliando quella parte di Roma come fa il coltello affondato nel burro, quando, ad un preciso segnale del loro padrone, i cavalli abbandonarono via del Corso per imboccare finalmente la Via dei Condotti.

Vicinissimi a concludere il nostro viaggio, io e Joseph eravamo ormai nel cuore di quello che sapevamo essere chiamato Ghetto degli Inglesi, l’enclave anglofona che, sin dai primi giorni del Grand Tour, si andava ammassando tra via del Corso e piazza di Spagna.

Ormai da tempo, quella zona brulicava di alberghi, osterie, locande, sale da tè e caffè letterari divenuti luoghi di ritrovo abituale per artisti e scrittori provenienti dall’Inghilterra, dalle Americhe e da altre regioni d’Europa.

A quei tempi, nessuno tra loro, tra noi, immaginava il prezioso contributo che avrebbe fornito fissando su tela, carta o spartito quello straordinario e fecondo momento di fermento culturale e artistico che avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia plurimillenaria di Roma.

Venimmo infine accolti dall'elegante piazza di Spagna e, ancor prima di scendere dalla vettura, i nostri occhi si misero subito a scrutare le facciate dei palazzi signorili alla ricerca della pensione della signora Angeletti.

Il mio sguardo fu catturato dai mille gradini di Trinità dei Monti ed ecco, in basso a destra, la porta per accedere in un edificio color ruggine, punto ultimo del nostro lungo viaggio.

Avrei reso immortale quel palazzo, ma in quei giorni ero ancora all’oscuro di ciò che mi avrebbe riservato il futuro.

Mi sistemai sul piano nobile riponendo i miei due bauli accanto al letto di una stanza dotata di un caminetto e due finestre. Una dava sulla splendida Fontana della Barcaccia, situata proprio al centro dell'elegante piazza, l'altra affacciava sul grande scalone, straordinario raccordo scenografico tra le pendici del Pincio e la sottostante agorà che deve il suo nome alla vicina ambasciata iberica presso il Vaticano.

In quei primi giorni speravo vivamente di avere le forze per assorbire l’energia di Roma che, come balsamo, avrei spalmato sui miei dolori e tormenti interiori. Ancora una volta ispirato dalla lettura di Goethe, desideravo rinascere e mi illusi di poterlo fare a partire dall’istante in cui la suola delle mie scarpe ebbe toccato il selciato lastricato di sampietrini.

Era mia intenzione mettermi quanto prima sulle tracce lasciate dal grande tedesco e da Stendhal ammirando le colline che, fiancheggiando il grande Tevere, formano tortuose e dolci vallate che paiono volutamente disposte in modo da consentire all’architettura cittadina di mostrare fieramente gli innumerevoli e straordinari lasciti della sua antica storia.

Sarei salito sul celebre Gianicolo per ammirare, attonito, la moltitudine di cupole e tetti, lo spettacolo dell’elegante profilo del Quirinale sul monte Cavallo, per poi guardare più in là alla ricerca della torre da cui si dice che Nerone ammirò l’inferno in terra recitando follemente passi dell’Eneide accompagnati da note di cetra.

Avrei successivamente abbassato lo sguardo alla ricerca di palazzo Corsini e dei suoi mirabili giardini e, non ancora sazio, avrei cercato con gli occhi il riflesso del sole sul travertino che abbellisce l’imponente palazzo Farnese.

Ahimè buona parte di questi desideri rimase solo tale. Ero giunto a Roma in un periodo dell’anno che, sin da subito, sembrò voler frantumare qualsiasi speranza di un inverno mite e temperato.

Solo una volta i capricci del meteo e di un corpo che si faceva via via sempre più fragile, allentarono il giogo. Quel giorno mi recai sul colle del Pincio volutamente prima del crepuscolo, a quell'ora in cui il sole bagna la città con i suoi raggi obliqui.

Ammirai così la luce del tramonto romano insinuarsi fra il fitto fogliame rossiccio, viola e giallo donando al tutto la parvenza di un luminoso dipinto a olio. Osservando prati circondati da una sontuosa corona di lecci, querce, pini e le tante aiuole distribuite come una quinta di palcoscenico a più livelli, ebbi l’impressione che, sotto un sottile velo, Roma nascondesse la mitica Arcadia da secoli bramata da poeti, filosofi e uomini di pensiero.

Chissà, forse Shakespeare era stato raggiunto in sogno da immagini simili, prima di cominciare a scrivere di Oberon, Titania e del loro fatato regno. Negli ultimi lembi di memoria legati a quei momenti, mi avvicino alla balaustra per osservare, stordito, il vasto Campo Marzio che al tramonto si dispiega davanti ai miei occhi con il volto imbellettato da luci del frutto d’arancio. Ricordo che in quegli istanti ebbi la sensazione di sentire addosso gli occhi di Puck nascosto tra i cespugli alla mia sinistra.


CAPITOLO IV



La calda luce di quel momento contribuì a ritemprare per qualche istante il mio spirito e fu una delle poche lame che riuscì a squarciare le fosche nubi che, pressoché immobili, sovrastavano la mia giovane vita.

Successivamente il mio corpo ricominciò inesorabilmente ad urlare di dolore costringendomi ad una vita di quasi clausura sempre più dipendente dall’aiuto e dal conforto donatimi da chi mi circondava. Tra questi il mio nuovo vicino di casa, l’istrionico e facoltoso Giorgio Rea grande appassionato di poesia che in più di un’occasione si fece trovare disponibile ad assistermi e a supportarmi fino a pagarmi anche delle cure. Isaac Elton, malato compagno di sventura che allietava le mie passeggiate a cavallo fortemente consigliate ad entrambi dal dottor Clark il quale, fedele al Giuramento di Ippocrate, mai si risparmiò nel tentativo di ledere le mie sofferenze attraverso cure e restrizioni alimentari mirate. Finanche il salasso mi presentò come nuovo amico. E naturalmente Joseph, il mio caro amico Joseph Severn, la candela sempre accesa accanto al mio capezzale.

Benché lo desiderassi, scrivere una lettera divenne ben presto cosa ardua. L’ultima che riuscii a comporre è datata 30 novembre 1820 e la indirizzai a Charles Brown, il più intimo degli amici.

Da quel momento in poi, mi fu dolorosamente impossibile riprendere in mano il pennino. Con quegli ultimi tratti d'inchiostro, dissi addio a Charles, a Lei e al mondo.

Mai avrei pensato che persino l’atto di aprire un libro sarebbe diventato un giorno fonte di indicibili sofferenze.

Ricordavo perfettamente i primi piaceri della lettura, le avventure del naufrago Crusoe, i viaggi del Capitano Cook, e poi la scoperta delle antiche favole greche, dell'Omero tradotto da Chapman o, ancora, i sogni ad occhi aperti fatti sfogliando il dizionario mitologico di Lemprière con le sue pagine piene di riproduzioni di marmi e sculture di epoche mitiche e gloriose. Nella mia vita molto ho viaggiato nei reami d'oro. Quante dorature sui tagli dei libri ho spalancato per saziare la mia infinita fame!

Ma tutto era ormai finito. Anche quelle mille escursioni tra le pagine dei libri mi sembravano appartenere ad un lontanissimo passato di normalità tramutatosi in un abisso di dolore.

Spesso, durante il mio soggiorno romano, ebbi la sensazione che la mia vita fosse in realtà già conclusa. Più passavano i giorni, più mi convincevo che quella che stavo conducendo era un'esistenza postuma.

Sentivo i sintomi della malattia errare dentro di me. Nel momento della mia partenza dall’Inghilterra, i miei dolori erano concentrati nei polmoni. Nei giorni di piazza di Spagna li avvertii allungarsi verso il basso come a volersi prendere anche lo stomaco. Non contenta, la mia tubercolosi polmonare stava provocando un lento sanguinamento nell'intestino.

I tormenti di quella malattia non mi erano nuovi. Anni addietro avevo osservato, impotente, prima l’acuirsi delle sofferenze e poi la morte di mia madre seguita da quella del mio amato fratello Tom spiratomi tra le braccia. Ero quindi ben conscio di quanto mi stava accadendo. Il mio corpo sarebbe stato devastato da un male che, come un'ombra maligna, seguiva da tempo la mia famiglia.

La sera in cui, dopo aver tossito, vidi rischiarato dalla flebile luce di una candela il rosso vivo del mio sangue, compresi subito che si trattava di fluido arterioso e che quelle gocce impresse sul cotone erano la mia definitiva condanna in quanto firma inconfutabile di chi è malato di tisi.

Nonostante la completa abnegazione di Severn, del dottor Clark e di un’altra manciata di amici, mi sarei lentamente spento. Così, una muta disperazione divenne l’abitudine che vestiva costantemente il mio essere mentre, prigioniero, me ne stavo confinato in camera facendomi raccontare brandelli di vera vita dai miei sensi celati da una finestra.

In quei giorni, i gradini di Trinità dei Monti visti da dietro al vetro, mi parvero come acqua che precipita da una immane cascata. Questa visione mi causò un forte senso di vertigine. In quei momenti, benché per scampare al crepacuore rifuggissi volutamente il pensiero di Lei, allo stesso tempo mi trovavo a maledire il fato recriminandogli di non avermi posto accanto la mia amata durante gli anni vissuti in perfetta salute. Ero assolutamente convinto che, a quei tempi, la sua vicinanza avrebbe potuto essere uno solido scudo da frapporre a qualsiasi malattia.

Con pazienza cercai di sopportare le mie miserie. Oh che sorpresa scoprire quanta miseria possa contenere e sopportare il cuore umano!

Le pagine del calendario scorsero veloci fino al Natale il cui imminente arrivo, ci fu annunciato dalla musica dei pifferai di strada, contadini ricoperti di pelle di capra che, discesi dalle montagne del vicino Abruzzo, giungono ogni dicembre a Roma per suonare serenate alla Vergine.

Passai quei santi giorni quasi sempre rinchiuso nella mia abitazione con il povero Joseph a farmi una paziente e solitaria compagnia intervallata, ogni tanto, dalle strane e ripetute note dei musici che attraversavano i sottili vetri delle finestre. Mio fraterno pittore d’Inghilterra, quanti momenti di noia deve averti regalato la triste condizione del tuo compagno di viaggio!

Anche il nuovo anno fece capolino accompagnato da pallide e fredde nubi a sorvolare un'immaginazione che, lasciata libera di riaffiorare tra un tormento e l’altro, pareva prendersi gioco della mia mente e del mio cuore proponendomi immagini orribilmente vivide di Lei. In quei frangenti non c’era nulla di interessante al mondo da avere il potere di distogliere il mio addolorato pensiero rivolto a Lei sola.

L’inarrestabile Crono continuò nella sua infinita corsa portandoci febbraio e un periodo che, mi era stato raccontato, i romani amano particolarmente.

Mai dimentico degli antichi e selvaggi Saturnalia, il popolo romano attende sempre con ansia l’arrivo del Carnevale. Avevo saputo dalle cronache dell’amico Shelley e del mai domo Byron, che il sopraggiungere di questa antica celebrazione del caos sembra ricoprire con un invisibile manto di follia l’intera città.

A mezzodì del primo giorno di festa, al rintocco della campana del Campidoglio, qualcosa di magico pare stravolgere la composizione dell’aria. L’euforia di quegli attimi dona ai romani il coraggio di recidere, per qualche giorno, i legami con buona parte delle regole del vivere civile. Da quel momento in poi, l’ordine viene sovvertito permettendo a tutte le classi sociali di abbattere momentaneamente i propri steccati. Tutti persi tra gli inebrianti fumi e vapori diffusi in città dal Dio Bacco, i romani seguono l'esempio di Rugantino e della sua allegra e strampalata compagnia di maschere abbandonando la normale moderazione e gettandosi a far bisboccia tra le strade e le piazze.

Tante volte, nei miei anni inglesi, avevo immaginato di essere in piazza del Popolo o affacciato da uno dei tanti balconi di via del Corso, per assistere alla folle corsa dei cavalli berberi scossi che, seguendo una tradizione secolare, la domenica di Carnevale si lanciano anarchici e selvaggi, lungo il dritto viale alla volta del lontano traguardo di piazza Venezia.

Dei berberi lasciati liberi di correre senza padrone per le vie di Roma, avevo letto per la prima volta nel Paradiso di Dante, sognando di essere un giorno annoverato tra i nobili, gli artisti o i semplici viaggiatori che giungono da ogni dove per assistere ad uno spettacolo capace di regalare emozioni forti e indimenticabili.

Continuavo a fantasticare immaginando di attendere con impazienza il tramonto del Martedì Grasso per poi lasciare furtivo l’uscio di casa protetto da una maschera in volto e tenendo tra le mani una candela, un lumino, una fiaccola o una lanterna. Così preparato, avrei imboccato via del Corso per tuffarmi nella magica e seducente festa dei moccoletti di cui avevo saputo ancora una volta attraverso i diari del buon Goethe. Mi sarei intrufolato tra migliaia di fiammelle in movimento, per sbellicarmi dalle risate osservando le follie di quei momenti, apice assoluto del godimento di un intero popolo. Avrei fatto tutto questo stando ben attento a non farmi spegnere da qualcuno quella sorta di coda di sorcio luminescente che mi portavo dietro. In caso contrario, sarei stato costretto a dover mostrare al mondo il mio volto. Questa sapevo essere l'unica e ferrea regola da rispettare in quella notte di spiriti e fuochi fatui.

Nulla, nulla di tutto ciò vidi, respirai, provai, vissi. In realtà, quei giorni di baccano e pazza festa, la cui lontana eco giungeva alle mie orecchie attraverso le finestre, preannunciavano solo l’avvicinarsi della fine.

Il buon Joseph non mi lasciava quasi mai, vegliandomi spesso anche di notte dopo avermi letto libri in molti momenti della giornata. Con l’arrivo delle ore più buie accendeva un fuoco ben sapendo che amavo il crepitio dei ceppi ardenti e la sua ipnotica compagnia. In quegli ultimi giorni, il caro Severn non si limitava solo a queste attività ma mi preparava da mangiare, mi rifaceva il letto, mi spazzava la stanza e mi sorreggeva quando, ogni tanto, provavo a fare due passi. L'unica e sola verità è che senza Joseph Severn sarei certamente morto in una solitudine imbevuta di squallido abbandono.

Ma adesso basta ricordare, basta raccontare del mio viaggio. Sono stanco. Molto stanco. Sento di essere vicinissimo alla fine. I miei occhi, annebbiati da stanchezza e tormento, intravedono fuori il leggero bagliore dei lumini a olio che rischiara appena le facciate dei palazzi. Inspiegabilmente, quella visione fa riaffiorare ancora una volta in me il ricordo di chi, tempo prima, mi rese poeta mostrandomi cosa si cela davvero dietro la parola amore. Lei, la mia amata Fanny. Lei alla quale, sin dall’inizio di questo mio ultimo pellegrinaggio, ho avuto paura di scrivere. Lei da cui ho avuto il terrore di ricevere una lettera perché convinto che scorgendo la sua calligrafia il cuore mi si sarebbe spezzato.

Anche ora, oppresso da vapori oscuri e da un sudore di morte, mentre sento che la mia vita sta scivolando via tra il ribollire continuo dei miei umori intervallato da improvvisi sbocchi di sangue, anche ora la mia mente e il mio cuore sono fermi sul volto di Fanny. Più sento che la vita mi sta inesorabilmente lasciando, più ho voglia di estrarne il succo primordiale fatto, ne sono certo, di pura bellezza e sincero amore.

Caro Severn fraterno amico, vieni qui. Io mi sollevo, sto morendo. Morirò facilmente. Non spaventarti e sii saldo. Il momento, grazie a Dio, è arrivato. Quando tutto sarà finito, fa che le mie spoglie riposino in un prato di Roma circondato da pini e cipressi. Lasciamo alle margherite e alle rose la libertà di crescere su questo povero giovane inglese che tanto ha amato la vita. E, a sigillo di quello che sono stato, non fare incidere su pietra il mio nome ma solo queste parole:


“Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell'acqua"


FINE


***


POST MORTEM



A tre giorni dalla morte, il corpo di John Keats fu sepolto nel cimitero acattolico di Roma dove si trova tuttora. Sulla lapide, posta a pochi passi dalla Piramide Cestia, non fu inciso il nome del poeta ma la frase da lui stesso scelta. Tuttavia, i suoi amici John Severn e Charles Brown vollero farla precedere da queste parole:


“Questa tomba contiene tutto ciò che fu mortale di un GIOVANE POETA INGLESE, che sul suo letto di morte, nell’amarezza del suo cuore verso il malvagio potere dei suoi nemici, desiderò che queste parole venissero incise sulla sua lapide”.


Secondo le leggi pontifice dell'epoca, gli oggetti del poeta, compresi i mobili e la carta da parati, vennero dati alle fiamme nella convinzione che sarebbe servito a sanificare l'abitazione di piazza di Spagna. Tutto andò in fumo per sempre tranne una cosa.

Le ultime lettere ricevute da Fanny, che John non ebbe mai il coraggio di aprire per non rivivere il dolore di non poterla più rivedere, furono sepolte insieme a lui.


***

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