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Tess, a matita (SECONDA PARTE)

Avevo quattordici anni e tutto filava liscio, senza nessuna delle complicazioni che a volte possono accompagnare la vita di un adolescente. E, a completamento di una esistenza già sorridente, quell’estate al mare avevo conosciuto una ragazza, pure lei sorridente verso di me e ci eravamo messi insieme. Non era la prima fidanzatina, seppur non avessi avuto grandi avventure, tali che comportassero il vanto con gli amici. Per me divenne subito un rapporto serio, non cercato, in cui rimasi intrecciato come nelle maglie di una rete e, a forza di ingarbugliarmici dentro, non capivo più se non potessi o non volessi uscirne. Dopo pochi giorni, le avevo già promesso che entro qualche anno l’avrei sposata e lei mi aveva risposto giurandomi a sua volta che mi avrebbe aspettato e non mi avrebbe tradito mai con nessuno, anche se erano in tanti a farle il filo. Ce lo dicemmo guardandoci negli occhi, fino a farceli bruciare quando divennero lucidi. Lei abitava nel paesello in riviera dove passavamo le vacanze ogni estate, io ero il ragazzino che arrivava dalla città ogni anno, puntuale fino alla noia.

E una volta a casa, ero ritornato anche alle vecchie abitudini di sempre: scuola, chitarra, calcio, inglese, playstation, ma a cui si era aggiunto questo rapporto a distanza, fatto di telefonate e messaggi. Ero felice e immaginavo di vivere con lei e mettevo da parte i miei risparmi per organizzare il matrimonio e non farci mancare niente, almeno a lei, insomma. Volevo cominciare da subito a lavorare per incrementare il mio gruzzolo, mi proponevo per lavare l’auto dei parenti e dei vicini nel fine settimana, fare la spesa prima di andare a scuola e per l’estate successiva programmavo di andare con la bici nelle campagne in periferia per la raccolta della frutta. Ero organizzato e metodico e, intanto, avevo cominciato a mettere in vendita tutti i giochi e le cose che non usavo più. Mi sentivo un uomo, ormai, con progetti di lungo periodo. Seri, soprattutto. Immaginavo di rapportarmi alla pari con mio padre, come due adulti. E tutto mi faceva sentire migliore dei miei amici e degli altri ragazzini, che d’improvviso vedevo solo come dei bambini viziati.

Ero felice, sì, ma anche stupido. Non mi ero accorto che lei non avesse alcuna intenzione di aspettarmi e, infatti, non mi aspettò. E un po’ la colpa era anche mia. Un giorno suo padre chiamò i miei e glielo disse, laconico e sintetico come un telegramma. Mia madre e mio padre si passarono la notizia per qualche giorno, facendola rimbalzare sul ripiano della penisola in cucina, sottovoce, criptici, sfatti.

Tess non rispondeva ai miei messaggi, intanto.

Erano passati due mesi dall’ultima volta che l’avevo vista, la sera prima di ritornare a casa. Ci sentivamo al telefono più volte a settimana, ci messaggiavamo tutti i giorni, però. Al primo messaggio a cui non avevo avuto risposta, non avevo dato peso. E nemmeno al secondo, fino a che non li avevo più contati. Soffrivo dentro, sentivo mani che mi svuotavano le viscere, e tutto cercando di dissimulare.

Finalmente, i miei genitori si decisero a comunicarmelo. Quindi, una mattina mi portarono al mare, anziché lasciarmi a scuola come al solito e lì seppi che Tess si era suicidata. Non era il mare di Tess, ma uno abbastanza vicino casa, dove non ci andavamo mai in vacanza, solo qualche sporadica passeggiata. E un po’ la colpa era anche mia, perché lei me lo aveva ripetuto più volte “non mi sento a mio agio nel mio corpo” e io non avevo capito cosa significasse sul serio, pensavo a un’espressione da adolescente per sembrare profonda e matura ai miei occhi. E restavo in silenzio, perché non trovavo niente di adeguato da dire, pensando che sul serio fosse più matura di me. Ma per lei doveva essere veramente importante, perché lo scrisse anche nel biglietto di addio che lasciò in camera sua, prima di uscirne l’ultima volta. Non ho mai chiesto ai miei se sia stato solo un caso o abbiano scelto apposta il mare per darmi la notizia tanto brutta quanto crudele, di Tess che si era lanciata proprio in mare e non era più riemersa e il corpo non è stato mai più ritrovato. Era salita su uno spuntone di roccia e con la luna che calava in acqua, aveva messo un punto ai suoi battiti e al suo essere vita. Aveva rinunciato a essere donna e moglie, forse pure mamma, aveva scelto di fermarsi all’adolescenza. Tess, che io amavo.

La sera prima che partissi, mi aveva portato proprio in quello stesso posto e mi aveva lasciato senza fiato, per quello che sentivo sulla pelle e dentro, vedevo di fronte a noi, provavo a dirle, ma mi restava tutto confuso e impastato nella bocca e nei pensieri. Anche quella volta me lo disse di non sentirsi a suo agio nel corpo, ma io non volli sentire, non volli capire e mi limitai ad ascoltare e annuire inebriato di lei, delle stelle, del mare. A preoccuparmi di assecondare solo me e le mie emozioni, pulsioni e sensazioni, solo e soltanto i miei bisogni, in un susseguirsi di prime volte, piene di sorprese e ormoni e boh, chissà cos’altro ancora, che non riuscivo a identificare e che ora se ne starà sepolto nella mia coscienza per permettermi comunque di andare avanti senza di lei.

Quando sono diventato adulto, molti anni dopo, l’ho cercata in ogni donna che incontrassi, senza trovarla in nessuna, bloccato nello stallo delle certezze crollate, nel pieno della corsa verso la maturità. Non sono mai riuscito a instaurare una relazione seria con nessuna, ogni volta durava qualche mese e poi via, tutto finiva in un vuoto banale e assoluto. Anche mia figlia è nata in uno di questi rapporti, in uno di questi vuoti. Non voluta, non cercata, ma la cosa migliore che mi sia capitata, forse senza meritarla. Ero ubriaco quando l’ho concepita e pure la madre che nove mesi dopo non voleva più saperne di me e neppure di lei. Ero ubriaco pure quando è nata, nascosto per paura in una bottiglia, come quei messaggi che si spera arrivino a qualcuno che ti salvi da quell’atollo squallido su cui sei approdato dopo il naufragio. L’ho chiamata Tess, mia figlia, senza dare spiegazioni: per chi sapeva non era necessario, per chi ignorava, non lo ritenevo necessario io. L’ho chiamata Tess, forse per impormi una piccola sofferenza ogni giorno, per evitare di dimenticarmi di lei, perché un po’ era colpa mia, che se proprio non l’avevo spinta, forse nemmeno l’avevo trattenuta. L’ho chiamata Tess, mia figlia, per dare una nuova possibilità a Tess, la mia ragazza, di completare il suo percorso, ma senza darne il carico a mia figlia. Spero. E Tess, mia figlia, è all’oscuro di tutto. E provo vergogna per questo: due Tess che creano un filo tra loro senza essersi mai conosciute e io che utilizzo quel filo per legarmi l’anima, la coscienza, la mente, il cuore, quasi come un insaccato che senza si sgretolerebbe.

 

Ho preso l’abitudine, a fine serata, di sedermi sotto il patio, nascosto nel buio, protetto dalla notte fonda. L’oscurità fa paura solo se non sai che c’è dentro. Io, al massimo, ci trovo pensieri, ricordi, dolori. Tutti scomposti e distanti, dovrei avere attenzione e cura a maneggiarli, ma la pigrizia prende il sopravvento e potrei farmi male un giorno.

Allungo le gambe, dritte davanti a me, con una caviglia che si accavalla sull’altra, generalmente la destra sulla sinistra. Mi isolo, bevo un rum agricolo, aspetto il sonno, sperando mi faccia compagnia. La avverto, in qualche modo, la mia compagnia, proprio come se fosse la presenza di un’altra persona.

Non so da dove arrivino, ma sento dei rumori, come se fossero passi, sono leggeri, morbidi. La luna non è quasi mai un buon faro sopra le viti, che sia uno spicchio o sia intera, è resa opaca da un velo di nuvole costante, come se si coprisse per venire a farmi visita, raramente è libera e lucente.

Goos è in silenzio, al mio fianco. Non ho paura. A volte, penso di aver sbagliato a dargli questo nome: ai più devo sempre specificare di non essere un fan del film Top gun né tantomeno della Marvel, da cui il gregario di Tom Cruise ha preso il nomignolo. Il nome del mio dobermann è Goos, senza la e finale, che lo rende molto meno dolce nella pronuncia. E per l’aspetto ci pensa lui, invece a non sembrare né dolce né docile.

Dopo aver sentito questi rumori, subito mi distraggo, ficcando il naso nel bicchiere e annusando forte il rum. Chiudo anche gli occhi, in genere e, quando li apro, bevo un sorso, cercando di farmi durare il drink un po’ di più.

Aprendo gli occhi, trovo la stessa scena di prima: la notte e, nel suo buio, incastrate le stelle. Lo scorcio è familiare e sereno. Mi crogiolo in queste abitudini, tutte uguali, tutti i giorni, come un lungo presente. C’è del nuovo però che si sovrappone, è una sagoma in ombra, un disegno leggero, fatto con una matita chiara, sul blu notte dell’aria aperta che mi circonda. Mi si compone nella testa, come un’opera d’arte, ma a cui non so dare un titolo. È una donna che si avvicina con passo lento, ma sicuro. È una donna che conosco, di famiglia. È una donna magica, che non posso dimenticare. Gli anni le segnano il viso con delle rughe che non c’erano l’ultima volta. I capelli si appoggiano sulle spalle, morbidi, scuri e lucidi. Stesso colore, stesso taglio di sempre. Indossa una gonnellina di jeans, calze scure pesanti e un maglione di lana a collo alto, con un treccione davanti. La avviluppa nel caldo che trattiene e io non glielo avevo mai visto indosso. La bellezza immensa non è deturpata, il mio stupore supera la mia ingenuità. Sono frastornato e muto, immobile con il bicchiere a mezz’aria, gli occhi appannati dalla mancanza di lucidità e da un panno sottile di lacrime.

 

«Posso sedermi?»

 

Mi chiede in un sussurro, come se non volesse infastidire il sonno degli uccelli diurni o la caccia dei predatori notturni. Deve spiegarmi, sottolinea dopo avermi dato qualche attimo per assimilarlo. Io la sento a malapena e tentenno, ma non perché non voglia.

 

«Ehi…certo»

 

L’esclamazione e il consenso arrivano distanziati e straniti, come se venissero da due posti distanti, l’una dalla mente e l’altro dal cuore e si fossero incrociati per caso sulle labbra. Sono solo due parole che però mi costano fatica. Con la testa le faccio un cenno. Lei capisce, sorride e le si forma la solita fossetta nella guancia destra. Si siede accanto a me, sulla poltrona uguale alla mia, dove mi sento scomodo, ora. Tess invece è calma, come appagata. E questo mi rincuora. È Tess, ma non mia figlia.

Le ombre e i rumori che mi sembrava di vedere e sentire provenivano dalla sua sagoma e dai suoi spostamenti. Di proposito. Altrimenti avrebbe potuto muoversi senza produrne, come ha sempre fatto finora. Quello sentito la mattina era effettivamente il suono del citofono, invece. Ha bussato e mi ha aspettato, poi mi ha camminato di fianco, cercando una soluzione per dirmi di sé.

Parla facendo sembrare il tutto una cosa normale, cerco di concentrarmi per dedicarle la massima attenzione.

 

«Tu sei stato l’unico uomo della mia vita. L’unico ragazzo, in realtà.»

 

dice, mentre cerco di replicare, ma perché mi sento come obbligato a farlo, non perché voglia parlare.

 

«Tess, a essere sincero, temo sia avvenuta la stessa cosa per me, nonostante le altre relazioni, nonostante mia figlia.»

 

Mi stupisco di come riesca a tenere un dialogo con lei, che riprende a spiegarmi come siano andate le cose in quegli anni della nostra adolescenza.

 

«La vita non era l’unica per la mia esistenza…»

 

Cerco di interromperla, non capendo cosa voglia dire, ma noto che lei se lo aspettava e non me lo consente.

 

«…a un certo punto, sono finita in un punto di non ritorno, troppe aspettative, troppi desideri, troppi disturbi a distrarmi dalla mia vita da adolescente e ho cercato di essere di più, ma senza riuscirci, e non ho visto che un’unica via di uscita, un’unica soluzione.»

 

Si sente sopraffatta, occupata, invasa, costretta ad andare via dalla sua stessa vita, quasi fosse non la sua volontà, ma un dovere.

E lo fa, lanciandosi nel vuoto, con il mare sotto, sperando di raggiungere quanto prima l’oblio. Il viaggio nell’aria è stato breve ma intenso, senza un pensiero prevalente, senza riuscire a comprendere cosa stesse succedendo. Il contatto con la superficie dell’acqua, le ha trasmesso uno strano senso di freddo, prima ancora di farle percepire il dolore, lancinante e immediato dell’urto. Però non è come se l’aspettava: pensava che sarebbe andata dritta all’inferno per il gesto compiuto, da come aveva appreso al catechismo. Entra, invece, in uno strano buco, così lo definisce, dal quale esce dalla sua vita per entrarne in un’altra, sempre sua, ma con una dimensione diversa e, come prima azione viene da me. Vede me che scrivo messaggi per lei, li legge, piange e non può rispondermi, farmi sapere che è più vicina di quanto immagini.

Per tutti questi anni, fedelmente, è stata al mio fianco, ha visto i miei successi sul lavoro e quando ho lasciato tutto per costruire questo posto, fare l’unica cosa che avessi voluto veramente, dopo il volerla sposare. Ingiustamente aggiungo io, ma non so bene perché glielo dico. Vede anche i fallimenti con le altre donne, che lei chiama i miei tradimenti a lei, però sorride, come quando mi prendeva in giro in quell’estate da ragazzini. Mi parla anche di Tess, mia figlia, le scorre una lacrima sul viso, di gioia, che non asciuga e lascia arrivare al mento, poi la perdo. La lacrima, intendo: lei non la mollo un attimo con lo sguardo.

Mi chiedo e le chiedo come sia possibile vivere questo. Lei non lo sa, figuriamoci io. Goos struscia il muso contro la gamba, vorrebbe che facessi qualcosa, forse, ma l’unica cosa che mi viene in mente che abbia un senso è riempire di nuovo il bicchiere con il mio rum, però sento le gambe molli e non sono sicuro di riuscire ad alzarmi. Continuo a vederla a tratti leggeri, non svanisce né si materializza e questa cosa voglio con tutte le forze cominciare a viverla come ordinaria, in modo che possa anche piacermi. Mi terrorizza l’idea di perderla di nuovo e deve trasparire anche sulla faccia, perché mi guarda triste, stavolta. Vorrei abbracciarla o toccarla, ma atterrisco all’ipotesi di non sentirla sotto la mia pelle. Per ora mi faccio bastare il riaverla negli occhi. Se il mondo fosse un posto normale, avrei il coraggio di stupirmi, ora sono solo stranito per questa situazione a cui non so dare un nome e che non oso definire anomala.

Vorrei solo avere la sua forza e il suo coraggio di entrare nello stesso strano buco.



FINE



Autore: Michele Palmieri

Art: Giovanna Di Benedetto


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